22, Feb, 2022 | Fashion
Top model, stilista, eletta Lady Universe, icona di bellezza ed eleganza, Regina fu musa oltre che grande amica di Andy Warhol, che le dedicò una coppia di ritratti. Dopo aver pubblicato l’articolo sulla sua lodevole iniziativa a favore degli operatori sanitari, abbiamo chiesto e gentilmente ottenuto un incontro con Regina Schrecker. Ne è scaturita un’intervista, curata da Domenico Briguglio, piena di spunti interessanti, dalla quale è emersa la personalità dinamica, vulcanica di questa vera Regina della moda.
- Regina cosa l’ha spinta alla sua ultima iniziativa?
– Verso la fine di Gennaio avevo visto su internet immagini impressionanti sull’andamento di questa nuova malattia, il Covid 19, in Cina e mi sono chiesta, oltremodo preoccupata, cosa avrebbe potuto accadere se quella situazione si fosse replicata in Italia. E poi..venne Codogno.. Fu per me un duplice shock, sia per il timore del contagio che per le possibili ricadute negli spostamenti personali che per me, abituata a muovermi per il mondo senza sosta, sono parte irrinunciabile ed inscindibile della vita. A poco a poco però la mia parte più ottimistica prese il sopravvento e cominciai a pensare ad un “dopo”, una rinascita che certo non sarebbe mancata. Nacque così l’idea del foulard, speranza nel futuro ed insieme testimonianza della mia gratitudine a chi stava combattendo la malattia in prima linea.
- Com’è iniziata l’avventura nel mondo della moda?
– Ero in un bar a Firenze ed un signore, molto distinto, mi avvicinò chiedendomi se mi sarebbe piaciuto sfilare. Quel signore era Emilio Pucci.. Andai nel suo atelier e quello che vidi non mi convinse: declinai la proposta. Qualche tempo dopo, in via della Spiga a Milano, fui avvicinata da un’altro distinto signore che, con garbo e cortesia, mi chiese se avessi voluto partecipare ad un Carosello.. Pensi:un Carosello! Ovviamente accettai! La mia parte consisteva nel condurre un carrello in un supermercato con una sola battuta: ” Dice a me?!” in risposta ad una voce proveniente da fuori campo. Indossavo per l’occasione un abito Courrege, forse il massimo in quel periodo.. Ne vennero poi altri, con Johnny Dorelli, Enzo Jannacci, Walter Chiari..
- Solo caroselli o altri impegni?
– Anche altro: sfilate a Parigi, Londra, New York..
- Dove poi ha conosciuto un certo artista..
– Sì. Andy Warhol. Un amico mi aveva accompagnata alla sua “Factory”. Contrariamente a quanto si possa pensare Andy era una persona timida, un po’ introversa, che riusciva ad aprirsi solo con chi dimostrava di meritare la sua amicizia. Ci siamo ” ammirati” a vicenda: lui da artista era colpito dal mio modo di stare sulla passerella, un apparire senza “darsi” al pubblico. Io invece ammiravo la sua capacità, unica, d’incanalare la grafica nell’arte, creando un genere nuovo che gradualmente ha conquistato il mondo.
- Qual’è stato il passo ulteriore?
– Mi ero stancata del ruolo di “oggetto”: la mia insofferenza, giunta all’estremo mi spinse a passare dall’altra parte, quella dei creatori. Alla fine degli anni ’70 ricoprii un ruolo specifico per alcuni brand di moda, quello della “stilista di linea”. Ma mi stava stretto. Nel 1980 il passo decisivo: l’esordio con il mio brand, da ” total look”, ovvero la creazione di tutti gli elementi di vestiario, inclusi anche gli accessori.
- Dal passato al futuro: cosa ci dobbiamo aspettare?
– Sto partecipando insieme ad altri artisti ad un progetto triennale per la città di Firenze. La commemorazione dei 700 anni della morte di Dante Alighieri. IL progetto, davvero enorme, include componenti di tutte le arti: musica, teatro, poesia, ovviamente moda con ampio spazio a tutte le maestranze specializzate, veri artigiani, che realizzano la confezione degli abiti. Non mancheranno anche esperti che proporranno dissertazioni teologiche, essenziali per comprendere l’opera del grande poeta. Ogni anno vedrà la messa in scena di una parte della Commedia a partire, ovviamente, dall’Inferno. Ogni fase della preparazione sarà puntualmente documentata da operatori web onde far conoscere al pubblico mondiale ogni aspetto, anche il più recondito, della costruzione dell’evento.
- Cosa avvenne dopo quegli avvenimenti di New York?
– Fu un’esperienza che durò anni, culminata con il ritratto che Andy volle dedicarmi. Solo che il ritratto si sdoppiò: diventarono due, che lui portò poi a Milano, presenziando con altri amici, tra i quali Basquiat, ad una mia sfilata. Due ritratti che sono diventati le icone della mia maison. Da lì la strada divenne in discesa, talvolta con ostacoli imprevisti, talaltra condita da successi frutto di accurata programmazione, mai del caso.
- Se dovesse tornare indietro cambierebbe qualcosa di quello che ha fatto?
– Assolutamente nulla, rifarei tutto quello che ho fatto, in tutto e per tutto.
Domenico Briguglio

19, Feb, 2022 | Gioielli
La fiera internazionale della gioielleria è l’occasione per far conoscere agli operatori del settore l’eccellenza artigiana de Il Diamante, azienda famigliare fondata nel 1995 da Maurizio Martone, primo insegnante in Italia di microincassatura, e dalla socia e compagna di vita Roberta Bardon. La sede dove prendono forma i gioielli e lo show room sorgono a Valenza Po (AL), uno degli epicentri della tradizione orafa made in Italy. La cura dei dettagli, l’impiego di tecnologie avanzate, l’attenzione nella selezione dei diversi materiali e le certificazioni che attestano la provenienza delle pietre sono fattori che hanno permesso a Il Diamante di essere scelto come partner produttivo dai più prestigiosi marchi del settore in Italia e all’estero. Il brand vanta anche la certificazione Responsible Jewellery Council, la più importante del settore orafo perché incentrata sulla trasparenza e legata alle pratiche responsabili per l’etica aziendale, i diritti umani, l’ambito sociale e le questioni ambientali. Grazie alla certificazione RJC Il Diamante è inserito nella catena di fornitura di grandi gruppi nazionali e stranieri. Da sempre attenta alla ricerca e all’innovazione, la proprietà è stata tra le prime a Valenza ad utilizzare il microscopio ed ha sviluppato due brevetti unici: uno per la realizzazione di gioielli 4D ed uno per la personalizzazione dei manufatti. Studiata per donare un’imponenza sublime ad ogni creazione, l’incassatura 4D presenta intorno alla pietra centrale, come ad avvolgerla, l’incastonatura di pietre laterali che donano una lucentezza unica da tutte le angolazioni. La tecnica usata per la personalizzazione consente invece di lavorare su spessori minimi dell’oro realizzando in maniera rapida e versatile oggetti impreziositi con diamanti così da creare un gioiello artigianale con una customizzazione unica al mondo e non replicabile in fusione per via delle misure estremamente ridotte e delle infinite varianti legate alle scritte incastonate con diamanti. La proprietà nel 2020 ha deciso di affiancare all’attività di conto terzista per i più rinomati marchi italiani e internazionali del lusso la produzione di linee di alta gioielleria destinate ad un target alto spendente che ricerca gioielli unici e inimitabili. Oltre allo studio del design delle diverse gamme i fondatori hanno ragionato in termini di investimenti strutturali, di ampliamento della sede di produzione, di acquisto di software di precisione, di un e-commerce che permette ai clienti di vivere l’esperienza di una boutique virtuale ed ha puntato sull’acquisizione di nuove figure professionali e sul personale, oggi composto da collaboratori giovani, dinamici e creativi.
16, Ott, 2021 | Bellezza, Fashion
Di Francesca Ceccarelli
I profumi più famosi del mondo
Anche voi vorresti un profumo costoso?
Sembra una domanda banale ma non lo è se si considera che ormai anche la profumeria sfrutta nomi e marchi di alta qualità per imporsi sul mercato.
Quali sono i profumi costosi presenti sul mercato, andando a scoprire quelli più famosi, per i quali occorre una carta di credito platinum per acquistarli!
Perchè un profumo costa tanto?
Al di là del nome famoso, alcuni profumi sono ricavati da fragranze particolari, da lavorazioni specifiche e il prezzo può arrivare alle stelle anche per tali motivi. Bisogna comunque avere i mezzi giusti per permettersi un profumo costoso.
E se i prezzi che sentirete vi sembreranno degli sprechi esagerati, esistono al mondo persone che possono permettersi quella spesa. Non tanto per avere un odore unico addosso quanto per il gusto di sfoggiare questa possibilità.
Ecco quali sono i profumi famosi che battono ogni record, ordinati dal meno costoso fino al superlusso per eccellenza: buona lettura da Lusso Mag!
Annick Goutal Eau D’Hadrien
Questo profumo costa “appena” 441 Euro a bottiglia, per inteso una bottiglia da 28 ml. Si tratta di un aroma molto particolare, basato sulle erbe più che sui fiori, tra cui risaltano basilico e agrumi. Freschezza e leggerezza sono garantite, e anche la classe.
Joy di Jean Patou
Un profumo famoso e un mix incredibile di fiori (rose e gelsomini) in quantità industriali. Forse troppo dolce all’olfatto, nell’insieme, garantisce però ottimo adattamento a ogni tipo di pelle per un prezzo di 850 Euro a bottiglia.
Caron Poivre
Tra i profumi più costosi si annovera anche Caron Poivre, il quale si presenta in modo regale, in una bottiglia di vetro lavorato, custodita in un contenitore très chic!
Al “modico” prezzo di 1.000 Euro a bottiglia avrete su di voi un odore di legno, fiori selvatici e pepe.
Hermès Faubourg
Profumi buoni e dalla produzione limitata: 1500 Euro è il costo per questo profumo dalla bottiglia elegantissima. L’aroma mescola gelsomini, arance, pachouli, ylang ylang, vaniglia, ambra, sandalo.
Il risultato? Da provare!
Chanel Grand Extrait
Nella nostra classifica dei profumi costosi non poteva mancare Chanel Grand Extrait, il quale è l’evoluzione del ben più noto e apprezzato Chanel n°5.
Si tratta anche in questo caso di un “numero 5” ma con una lavorazione ancora più attenta degli elementi aromatici.
Ecco perché è un “grande estratto”: 4200 Euro per una bottiglia di incredibile freschezza.
Les Larmes Sac De Terre di Baccarat
Cosa c’entra Baccarat con i profumi? Tanto, se pensate che i famosi cristalli qui formano la boccia e soprattutto i tappi di un prodotto unico. Incenso e mirra, profumo da dei.
Per questo vale tutti i suoi 6.800 Euro a bottiglia.
Clive Christian Imperial Jubilee
Altro profumo top di vaniglia tahitiana e ylang ylang per creare un’aroma che vi farà sentire fresche e delicate, con eleganza.
Per una bottiglia da 28 ml il prezzo sale sopra le 12.000 Euro. A fare questa cifra contribuiscono anche il vetro pregiato e il tappo dorato con diamanti ad aumentarne lo splendore.
Shumukh
Shumukh è stato prodotto dalla Spirit of Dubai Parfums negli Emirati Arabi ed è il profumo più costoso al mondo!
Ci sono voluti tre anni di ricerca e oltre 400 esperimenti andati male prima di ottenere la fragranza meravigliosa che oggi merita il primo posto al mondo.
Questo top profumo lo merita anche per due record: quello del prezzo (un milione e mezzo di Euro) e delle dimensioni (197 centimetri!).
Qual è l’odore?
Un misto raffinatissimo di ambra, muschio, sandalo, rose di Turchia, pachouli, ylang ylang e incenso.
Riuscite a immaginarlo?
Roja Parfums Nüwa
Un altro profumo costoso e super seducente su cui investire è sicuramente il Roja Parfums Nüwa. La prima peculiarità riguardante questo profumo è che è unisex.
In un tempo che non pone più importanza nelle differenze canoniche tra uomo e donna, è curioso vedere come anche il mondo dell’eau de parfum si adegui. In effetti la percezione di questa fragranza va oltre quello che universalmente siamo portati a concepire come femminile o maschile.
Cosa è l’uno e cosa è l’altro?
Roja Parfums Nüwa è un profumo che azzera ogni differenza e mostra il meglio di sé adeguandosi a chiunque voglia fare dell’essenza un vezzo irrinunciabile e distintivo della propria personalità. In questo caso parliamo di un’essenza incredibilmente sofisticata, femminile nella dolcezza e maschile nella versatilità. Tra le tante altre qualità da poter attribuire a questo profumo troviamo la decisione, l’acutezza, la capacità di ammaliare e avvolgere.
Il prezzo ovviamente non è da sottovalutare: il costo di una boccetta media si aggira intorno ai 750 euro.
Dolce & Gabbana “The Only One Intense”
Tra le scoperte più recenti troviamo invece The Only One Intense, l’ultima produzione firmata Dolce & Gabbana. Si cambia totalmente registro con questa fragranza che si allontana totalmente da quelle precedentemente menzionate. Il The Only One Intense di Dolce & Gabbana è infatti un profumo che sa d’oriente e prova a racchiudere nella sua essenza tutta l’energia ammaliante, fascinosa e magnetica di terre lontane.
Lo spirito orientale, che la famosa Maison Italiana prova a riprodurre in questa fragranza, viene sicuramente evocato attraverso un’essenza floreale, dolce e ricca di candore.
All’energia esotica si aggiunge però anche il tratto distintivo della Maison, ovvero l’italianità che rende il marchio tanto amato all’estero e in patria.
È possibile trasmettere il made in Italy anche da una fragranza?
A quanto pare sì, e Dolce & Gabbana ci riesce alla grande. Dal profumo si può subito avvertire l’odore allegro e fruttato del mandarino italiano, dei neroli e della mela verde. Il tutto culmina attraverso un tocco finale di vaniglia e cashmeran.
The Only One Intense di Dolce & Gabbana, dunque, può dirsi l’ennesima conferma di successo della casa di moda. Il profumo è stato molto ben accolto dagli affezionati al brand e non solo. È possibile quindi considerarlo come una scelta di gran classe.
In conclusione possiamo dire che il mercato riguardante i profumi di lusso è saturo di fragranze delicate, romantiche o super sofisticate. Ciascuna delle scelte che vi abbiamo riportato oggi ne è la chiara prova.
Affinché possiate rimanere felici della scelta d’acquisto ricordiamo però che il profumo va scelto sulla base di un’attenta personalizzazione. Prima dell’acquisto ricordate sempre che oltre a dover essere effettivamente accattivante e seducente, una fragranza deve rappresentarci. Ad esempio, le femme fatale, potrebbero amare i profumi più dolci e decisi, le ragazze della porta accanto quelli più semplici e floreali. Tutto dev’essere ricollegato al nostro modo di essere. Solo in questo modo potremo essere certi di aver fatto la scelta giusta.
16, Ott, 2021 | Fashion, LifeStyle, Uncategorized
Renato Preti, managing partner del fondo Opera, spiega le mutazioni del mercato
e come i grandi marchi del lusso sono chiamati ad adeguarsi. “Oggi il brand non basta pi˘, la gente cerca in quello che compra soprattutto piacere e divertimento”.
di Giuseppe De Pietro
“Intorno al made in Italy ormai Ë cambiato tutto. E’ come essere entrati in un altro mondo. PoichÈ non ci sono, almeno per il grosso pubblico, segnali evidenti sembra che non sia cambiato niente. Ma non Ë vero”. Renato Preti, che da tempo sul made in Italy e sul lusso in generale ha idee piuttosto severe, ha titoli per occuparsi di questo argomento perchÈ Ë managing partner di Opera (un fondo di private equity che ha costituito nel 2000 insieme alla Bulgari) che si occupa proprio e specificatamente di aziende del settore Italian Lifestyle.PerchÈ dice che Ë cambiato tutto? “Intanto, circolano delle cifre piuttosto significative. Fatti i conti sui maggiori undici players mondiali del lusso noi abbiamo che il loro fatturato nel 1999 era cresciuto di quasi il 20 per cento, di quasi il 30 per cento l’anno dopo. Poi, nel 2001 la frenata. Le vendite crescono solo dell’8 per cento.
Nel 2002 la crisi: scendono dello 0,4 per cento. Nel 2003 si dice che risaliranno, ma la stima corrente Ë che la crescita sia solo del 2,3 per cento e nel 2004 si arriver‡, forse, al 5,7 per cento. Insomma, i trend di crescita del 20-30 per cento all’anno sono scomparsi. Non ci sono pi˘”.Altri cambiamenti? “Età e soldi” Cioè? “Fra i clienti crescono i giovani. Nel 1997 i giovani fino a 25 anni era il 36
per cento rispetto al totale della clientela, nel 2001 erano gi‡ il 47 per cento.
Il settore, cioè, si avvia a avere in maggioranza una clientela che è al di sotto dei 25 anni. E questo vuol dire moltissimo: altri stili di vita, altre richieste, altre abitudini, altre attenzioni”. E poi c’è il discorso dei soldi. “SÏ Nel 1997 le classi con alto reddito costituivano il 27 per cento dei clienti del lusso, oggi siamo gi‡ scesi al 25 per cento. Nel frattempo le classi “medie” (come reddito) sono passate dall’11 al 16 per cento e quelle a basso reddito dal 9 all’11 per cento. Anche qui, insomma, c’Ë un cambiamento. Di fatto nel mercato, come clienti, stanno entrando forza i giovani e le classi medie. Insieme, si tratta di un mix abbastanza esplosivo”.
Ma i cambiamenti non sono tutti qui, suppongo. “Infatti, ci sono altre cose che stanno cambiando. E, di nuovo, siamo a una svolta molto importante”. Di che cosa si tratta? “Sarebbe un discorso lunghissimo (c’Ë gente che vi ha scritto sopra interi libri e ci sono decine e decine di ricerche molto complesse).
Ma, semplificando, possiamo dire questo: negli anni 80 il made in Italy era soprattutto esibizione, ostentazione. La Milano da bere, via. Negli anni 90 si Ë trasformato in brand.Poichè sono uno che ha reddito, e che ha gusto, mi vesto Armani, Versace, Prada, ecc. Gli anni Novanta sono i grandi anni della marca, del brand, della griffe”. E adesso? “C’è una rivoluzione, e non so quanto sia stata compresa da tutti”. In che cosa consiste? “Sostanzialmente oggi la gente non compra più˘ cose belle per esibizionismo o perchÈ sono firmate da una griffe famosa. Compra per piacere e per divertimento. Per avere un’emozione. E questo complica tutto”. Qualche esempio? “Sono sotto gli occhi di tutti. Qualche giorno fa incontro una mia conoscente, ricchissima, che era tutta vestita di Zara, cioË di questa grande catena spagnola di roba poco costosa. Un fatto impensabile fino a qualche anno fa.
Ma adesso, no. Si può fare. Perchè? Perchè è divertente, perchÈ queste sono cose carine. D’altra parte, non si tratta solo della mia amica. Zara a Milano ha un buon successo e adesso Ë arrivata anche la catena svedese H&M. Insomma, la discriminante non Ë pi˘ la griffe importante, Ë che la roba proposta sia piacevole e divertente. I soldi, nonostante tutto, ci sono. Ma la gente ha fatto un salto e compra quello che vuole. Vuole un altro caso? Le motociclette. Quelle straniere saranno anche pi˘ solide, avranno delle loro indubbie qualit‡, ma le moto “belle” sono le italiane. Basta andare in qualunque salone e si vede subito. C’è dentro una cifra stilistica, una cura, che le grandi case straniere non riescono a eguagliare. E la gente compra le moto italiane: perchÈ sono belle, perchÈ sono emozionanti, addirittura perchÈ,m a volte, non riusciamo nemmeno a fare tutte quelle che il mercato richiede”. Tutto questo cambiamento che cosa comporta per il nostro made in Italy, per il nostro mondo del lusso? “Temo conseguenze pesanti. I nostri sono tutti marchi affermati, e quindi continueranno a vendere per anni e anni. Ma temo che, in un certo senso, abbiano un grande futuro alle spalle. Temo che non riescano pi˘ a essere i protagonisti di domani”.
E come mai? “Ma, forse, perchè per essere divertenti, innovativi, di rottura, bisogna essere giovani o essere arrivati al successo da poco. Le nostre grandi griffe, invece, ormai sono un po’ delle cattedrali, delle strutture con stili precisi, collaudati, che funzionano. Non me li vedo che assumono di colpo due o tre stilisti fuori linea ma molto creativi con il preciso scopo di fare cose che stupiscono, che divertono. Non voglio fare nomi, come Ë ovvio, ma non è difficile capire quello che intendo dire. Se uno continua a farmi lo stesso abito, perfetto, fatto benissimo, con grandi tessuti e grande taglio, ok.
Ma nell’armadio ne ho gi‡ tre. Sabato mattina, invece, voglio andare in centro e comprarmi qualcosa che non ho (e che forse nemmeno mi serve), ma che mi d‡ la sensazione di avere addosso una cosa nuova, piacevole, anche controcorrente”. Un bel problema. “In pi˘ aggiunga che l’attenzione della gente si sta un po’ spostando. Dai vestiti alla casa, ad esempio. Nel settore arredamento la spesa sta crescendo in
misura molto forte”. Ma, ripeto, tutto questo che cosa significa per il made in Italy? “Penso che i settori in crescita siano appunto l’arredamento, le motociclette, l’illuminazione (le lampade), ma anche i cibi e i vini (il vero cuore dell’Italian Style of life)”. E qui come siamo messi? “Abbiamo tutto. Abbiamo i prodotti pi˘ belli del mondo, in assoluto. Nessuno fa lampade come le nostre e nemmeno mobili. Delle motociclette ho gi‡ detto, e potrei andare avanti nell’elenco. Insomma, fuori dalla moda, dall’abbigliamento, siamo in realt‡ ancora i pi˘ bravi del mondo. Il nostro gusto, anche in tutto quello che non Ë abbigliamento, rimane straordinario e molto ricercato. Provi a andare al cinema. Se l’azione si svolge in qualche salotto “di livello” sarà impossibile non vedere sullo schermo almeno un paio di lampade italiane e
qualche divano dalle nostre aziende”.
Allora siamo a cavallo. “Non tanto, per la verità”. E perchè? “Ma perchè andiamo a sbattere contro la solita maledizione italiana. Abbiamo le cose più belle del mondo, ma poi le aziende sono piccole, spesso familiari,
spesso lontane dal marketing moderno. Tante volte, quando il fondatore si deve ritirare, non si riesce a organizzare una successione valida. E quindi, alla fine, queste imprese coprono solo una parte minuscola dell’immenso mercato che hanno di fronte. Che è un mercato mondiale. E per stare su un mercato mondiale ci vogliono strutture forti. Crete ditte straniere solo con le magliette e i cappellini fatturano pi˘ delle nostre aziende omologhe. Gli altri solo con i cappellini legati alla marca fanno pi˘ di quello che qui si riesce a fare con cappellini e prodotto. La differenza sta nel fatto che gli altri sanno occupare un mercato mondiale, noi molto meno”. Siamo senza speranze? “No. Il vento del lusso, nonostante tutti i cambiamenti che abbiamo visto, tira ancora dalla nostra parte. Solo che dobbiamo riuscire a alzare qualche buona
vela per correre pi˘ forte”.
16, Ott, 2021 | Fashion, Gioielli
Di Sergio Ferroni
Intervista all’inventore del lusso Ha adattato Cartier ai tempi moderni, ha anticipato la tendenza a legare il lusso all’arte e la sua mano si nota ancora nelle scelte strategiche del colosso Richemont
L’ufficio di Alain-Dominique Perrin presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi è uno spazio relativamente sobrio per un uomo che da mezzo secolo detta il lusso in tutto il mondo. Nella cornice spiccano i libri sulle mostre d’arte d’avanguardia che da 32 anni ospitano la fondazione da lui presieduta sin dal primo giorno. A 74 anni, Perrin conserva l’incrollabile vitalità che lo ha portato a guidare Cartier negli anni cruciali dal 1976 al 1998 e che lo mantiene come una delle voci principali di Richemont, il colosso che racchiude alcuni dei marchi di alta orologeria. importanza, come lo stesso Cartier, Vacheron Constantin, Jaeger-LeCoultre e A. Lange & Söhne. In questa intervista esclusiva a Tiempo de Reloj, rievoca alcuni dei passaggi più rilevanti della sua biografia e analizza il futuro del settore.
Sei nato nel 1942, lo stesso anno in cui morì Louis Cartier. Non è una reincarnazione?
È un segno. Ho iniziato con Cartier nel 1969, ma non ci sono sempre stato. Ho diretto Richemont dal 1999 al 2003 e sono andato in pensione mezza pensione. Ora con Johann Rupert definisco la strategia del gruppo. E per te tutto è iniziato quando vendevi accendini Cartier. Sì, l’ho fatto per sei mesi, è stato un successo e Robert Hocq [proprietario della società di accendini Silver Match] mi ha assunto. Sono stato suo subordinato per alcuni mesi. Poi mi ha nominato capo delle vendite e un anno dopo ero già direttore generale della [linea più leggera] Briquet Cartier. Successivamente abbiamo lavorato con due o tre persone sul concetto di Les Must de Cartier. Ho scritto il concetto […]. Hocq, che era più finanziario, acquistò la maggior parte di Cartier perché Briquet era solo una licenza. Nel 1971 abbiamo comprato Cartier Paris, nel 1974 sono andato a comprare Cartier London perché parlava inglese, e nel 1978 abbiamo comprato Cartier New York con l’aiuto della famiglia Rupert.
Perché creare Les Must de Cartier e non recuperare lo storico marchio?
L’azienda stava perdendo denaro e la redditività era necessaria per sviluppare l’attività. Negli anni ’70 i successi del lusso in Francia furono pochi. Solo l’accendino Dupont e poco altro. Yves-Saint Laurent non esisteva e il lusso era un affare da negozi, non grandi aziende. Hermès aveva un negozio a Parigi e un altro a Cannes. [Louis] Vuitton dormiva con un negozio in Avenue Marceau. Il concetto di Les Must de Cartier era molto forte e c’era un’opportunità nel mercato. Era un marchio con prodotti costosi e di lusso, con una distribuzione specializzata in gioiellerie e tabaccherie oltre la boutique Cartier in Rue de la Paix.
Stavano reinventando il lusso?
Sì. Il successo è stato enorme ed è arrivato rapidamente. Non c’era mercato e l’abbiamo creato in due o tre anni, ei benefici sono stati molto importanti. […] Ho rifatto il modello Santos nel 1978 ma l’orologio più importante è stato il Tank. Abbiamo sviluppato una collezione di otto o nove modelli in oro e abbiamo iniziato a venderli nelle gioiellerie di tutto il mondo. La politica del suo Paese lo ha riconosciuto: la Legion d’Onore, l’Ordine Nazionale al Merito… Sì, naturalmente. Questo perché ho creato molti posti di lavoro. Ora a Richemont lavorano 33mila persone nel mondo e in Francia abbiamo circa 10mila dipendenti. Quando ha creato la Fondazione Cartier, collegare l’arte contemporanea al lusso in un decennio come gli anni ’80 era fare politica in Francia. Per me era una cosa politica. Dovevamo trovare un’idea per far sì che Cartier fosse simile all’establishment. All’inizio degli anni ’80 era un’azienda di lusso e ai nuovi socialisti non interessava il lusso. Ricordo una discussione con [l’economista, scrittore e politico] Jacques Attali, nel 1978. Attali era un socialista e [François] Mitterrand non era ancora stato eletto [presidente della Francia]. I socialisti volevano nazionalizzare Cartier. Attali, che ha più o meno la mia età, è venuto a parlare con noi e gli abbiamo chiesto come pensava di fare la nazionalizzazione. Dopo 30 minuti gli abbiamo detto: “Monsieur Attali, quando si vuole annunciare una decisione politica del genere, bisogna fare una piccola ricerca. Cartier è un’azienda straniera dal 1934”. Il ragazzo è diventato bianco. Negli anni ’30 Louis Cartier ei suoi fratelli decisero di portare Cartier in Svizzera, quando Hitler era in Germania e c’erano difficoltà in Francia con il Fronte Popolare. Da allora è un’azienda svizzera. Lo hanno fatto per proteggere il marchio e alcune officine. E abbiamo aperto un negozio molto importante a Ginevra che oggi compie 80 anni.
Lo scultore César, Andy Warhol, Elton John … Le celebrità hanno avvicinato Cartier o Cartier alle celebrità come una strategia?
Siamo stati i primi a lanciare un orologio o un gioiello con le celebrità per amicizia. Elton John è un buon amico da 40 anni, Tina Turner lo stesso, e molti altri. C’era Richard Gere,
16, Ott, 2021 | Fashion, Moda
di Giuseppe De Pietro

at their home in milano, 2001
Domenico Dolce e Stefano Gabbana: “Scontriamo continuamente, amichevolmente, sulle nostre idee” Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono stati scelti come famiglia di lavoratori 35 anni fa. Insieme, tra alti e bassi, hanno costruito uno storico impero tessile basato sulle loro radici e tradizioni. Abbiamo parlato con loro e abbiamo ritratto la modella Marta Ortiz interpretando le icone della maison italiana per le strade di Madrid. Sembra ieri che io e Domenico abbiamo iniziato. I primi anni sono stati devastanti, in ufficio sette giorni su sette, non uno libero. Abbiamo condiviso un obiettivo e l’entusiasmo che da sempre mettiamo nel nostro lavoro e che ci ha portato qui”, racconta Stefano Gabbana (Milano, 1962) guardando indietro [perché, sì, c’è ancora spazio per qualche festa in questo 2020] i suoi 35 anni d’amore creativo con l’anima gemella Domenico Dolce (Palermo, 1958).
La metà migliore del suo lavoro, un rapporto professionale –come ce ne sono stati pochi nella moda– che rimane forte e più sano che mai, nonostante i tanti disaccordi che, come ogni coppia, hanno dovuto affrontare. La sua storia è nota a tutti: un giorno del 1981 Domenico riesce a rispondere alla chiamata di Stefano chiedendo un lavoro come assistente nello studio del designer Giorgio Correggiari. È entrato, ovviamente. E quattro anni dopo stavano mettendo in scena il loro primo spettacolo come Dolce & Gabbana con una Milano nel suo periodo di massimo splendore come sfondo, assetata di nuove idee. Domenico ha ereditato il gusto per la sartoria dalla sua famiglia e Stefano, che aveva studiato grafica, ha completato il suo mestiere. Un ripieno perfetto non esente da discussioni che, si dice, sono quelle che alla fine portano ai migliori progetti: “Ci piace discutere!”, scherza Stefano. “Ci confrontiamo continuamente, amichevolmente, sulle nostre idee. A me piacciono alcune cose, a lui piacciono altre”. Come nelle migliori famiglie, vai. E il suo non sarebbe stato inferiore. “Ma l’importante è trovare sempre un equilibrio, una soluzione che ci renda felici entrambi. Durante il confinamento abbiamo discusso molto. È normale avere opinioni diverse! Siamo due facce della stessa medaglia”, dice Domenico.
Cosa c’è di più allegro e spensierato delle luminarie in una sera d’estate? Parte da qui, dalle mille luci colorate di una festa italiana, la collezione ‘Light therapy’ di Dolce e Gabbana, che sfila a Milano dopo due edizioni digitali. Ed è una festa, per gli stilisti, tornare a proporre le loro creazioni su una passerella tutta scintillante proprio di luminarie, per dare “un messaggio di allegria e spensieratezza in uscita – raccontano – da questo lungo tormentone”. Ed è un invito a uscire, a divertirsi, anche la collezione per la prossima estate, dove le luci si traducono in ricami di cristalli coloratissimi, che formano ancora motivi di luminarie sugli smoking, i jeans, i blazer, i bomber, i pull e i pantaloni.
Quando stavano disegnando la collezione, un trionfo di broccati, gessati, pizzi, paillettes e pennellate di colore – raccontano gli stilisti – hanno pensato che il lavoro di oggi ricordava loro quello del 2000, quando in opposizione ad anni di minimalismo proposero “una collezione donna massimalista che ebbe un gran successo”.
E ora, per quei giovani nati dopo l’anno 2000, Dolce e Gabbana tornano a proporre “quel momento di ricchezza, apertura ed edonismo” che aveva David Beckham come pioniere e icona dell’edonismo maschile. Allora “si andava nei locali, si usciva, si viveva fuori” ed è l’invito che fanno ai giovani ora: “volevamo far uscire la gente dai social” raccontano, spiegando che “quel che rimarrà del covid è l’isolamento sociale, che porta alla depressione, perché non si ha il coraggio di affrontare la vita, con le sue emozioni”. Il messaggio è: aprirsi! e lo dicono chiaramente le camicie che lasciano vedere il busto “non da playboy, ma proprio con quell’idea lì: apriti, affronta la vita, divertiti”.
In questo c’è anche il ritorno alla sensualità: “c’è molto testosterone – ammettono – ed è una cosa normale”. E se negli anni 2000, citati nelle T-shirt bianche con la scritta ‘2000 fashion moment’, l’idolo era David Beckham, ora i modelli sono i giocatori della nazionale di calcio azzurra: “belli, giovani e aitanti”. E soprattutto italiani, perché la collezione non è solo “un inno alla vita, all’aggregazione” ma anche all’Italia. Ed ecco le tute sportive tricolore, i completi canottiera e shorts in raso di seta sempre nei toni della bandiera, portati con tanto di corona. A indossare le nuove creazioni, 95 ragazzi, “l’80% italiani e multietnici, uno con la corona è di colore e – raccontano – è italianissimo, è una bella generazione”. Sono giovani che hanno la fluidità nel dna, “non hanno barriere come noi, hanno un modo diverso di essere sicuri di sé, noi abbiamo troppi preconcetti nel giudicare, loro non pensano invece a giustificarsi”. Se per i ragazzi mettersi lo smalto è assolutamente normale, la cronaca racconta che c’è ancora chi viene bullizzato e picchiato per questa scelta.
“Rimaniamo sbigottiti – commentano gli stilisti – che succedano ancora queste cose, l’intolleranza purtroppo è ovunque, noi facevamo queste cose già nel ’94 e all’epoca abbiamo ricevuto insulti e censure per una campagna con un ragazzo con lo smalto”. Ora quei ragazzi fluidi e senza preconcetti sono ovunque, ed è per loro questa collezione, con cui Dolce e Gabbana festeggiano il ritorno live perché “una sfilata digitale è come uno spaghetto congelato e la moda è emozione e condivisione, un modo per stare e – concludono – ricominciare insieme”.