Una vita per l’Arte – dipinti di Federico Heidkamp Gonzaga

Una vita per l’Arte – dipinti di Federico Heidkamp Gonzaga

Foto Cover:  Federico Heidkamp Gonzaga

Presentata presso la Sala Italia di UNAR e organizzata da Francesco Ugolini la mostra dell’artista Federico Heidkamp Gonzaga.  Con il patrocinio per gli scambi culturali Argentina-Italia e con l’introduzione di Chiara Anguissola e con l’intervento  S.A.S. Maurizio Ferrante Gonzaga del Vodice.  Domenica 8 Maggio la mostra dell’autore italo-argentino appartenente all’illustrissima stirpe mantovana si è aperta in una piacevole e rilassata atmosfera  stile happening secondo le più recenti tendenze  che permeano  gli ambienti culturali e artistici  internazionali  proponendo nel vasto spazio espositivo prescelto un giocoso  abbinamento di  arte visiva e  di musica con gli intervalli musicali  del M°  concertista d’arpa “SafyraSings in Concerto”.   Federico Heidkamp Gonzaga inizia sin da giovanissimo a scoprire la sua inclinazione per il disegno e la pittura tanto da eseguire, con notevole maestria, il ritratto della sorella, mostrando un’innata sensibilità nel coglierne lo sguardo e la psicologia, doti che trasferirà in seguito su altri ritratti.  La ricerca artistica di Federico è fortemente legata ad un concetto “romantico” della pittura, all’amore per il classico, per il bagaglio culturale che ci viene dall’antichità.   L’amore per la pittura, più che il quadro, è il motore primo dell’attività di Federico Heidkamp Gonzaga, artista che crea immagini, frutto di un grande passione e non semplicemente abilità “da mestiere”.   Figlio della principessa Isabella Gonzaga, Federico nasce a Buenos Aires, Argentina, il 5 luglio del 1969. È proprio in Argentina che inizia a studiare arte e impara il disegno e l’acquerello frequentando l’atelier di Peter Malenchini.  Il giovane artista raggiunge l’Italia nel 1997, dove risiede presso lo zio nella sua abitazione romana per circa due anni. In Italia lavora  inizialmente  nel cinema come  realizzatore di effetti speciali per passare successivamente alla pittura che diventa da allora il suo principale interesse. Entra nella bottega di Antonella Cappuccio, apprezzata pittrice della “nuova maniera italiana”, celebre madre dei fratelli Muccino. Da lei Federico perfeziona la sua tecnica ad olio, ma soprattutto  inizia a realizzare i primi lavori con la sanguigna.  La tecnica rimanda ai famosi cartoni di Leonardo Da Vinci e sono usati dal pittore italo-argentino per realizzare rielaborazioni d’autore e ritratti.   Alla componente artistica derivata da una discendenza importante, i Gonzaga sono infatti tra le famiglie nobili più attente alle arti e alla cultura, si aggiunge poi il legame con la famiglia Anguissola, a cui appartiene una della prime rivoluzionarie esponenti femminili della pittura europea, Sofonisba Anguissola, che rappresentò la pittura rinascimentale al femminile. Una  lunga ed importante tradizione  e un  profondo amore per l’arte muovono  quindi l’autore a dipingere sulle orme dei grandi maestri del rinascimento italiano quali Botticelli, Raffaello, Tiziano, per concludere con Caravaggio. Quest’ultimo è il pittore preferito con il suo esasperato realismo e i suoi chiaroscuri tratti da un’ambientazione che predilige la povertà e le miserie umane in contrasto con i colori accesi di una trionfante Controriforma. A differenza del Caravaggio però, Federico preferisce il trionfo della vita sulla morte e le sue opere spaziano dai vigneti all’esuberanza naturalistica, dai monumenti abbacinati dal sole, agli animali dei quali ha colto momenti ed espressioni significative senza dimenticare la sua terra d’origine con rappresentazioni di rodei, cavalli al pascolo e ricche grigliate.Pittore tendenzialmente tradizionalista pur con qualche sconfinamento nell’informale,  questo poliedrico artista dimostra la propria abilità nel conformarsi alle più recenti tendenze artistiche non disdegnando l’utilizzo di colori estratti dalle sostanze vegetali nonché dal caffè e dal vino con i quali ottiene lusinghieri effetti cromatici di notevole impatto visivo.  Anche i brillanti e colorati acquerelli come quelli inseriti nella rilegatura della  più recente opera letteraria  del principe Maurizio Ferrante Gonzaga “Fiori nel deserto”  rinnovano il segno dell’abilità dell’artista italo-argentino di trovare nel classico un punto di osservazione dell’attualità.

Manuela Lascaris

                      

 

Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona – Frammenti di Bellezza

Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona – Frammenti di Bellezza

Foto Cover – Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona con il ritratto di Ferdinando d’Aragona

In viaggio dentro le collezioni d’arte e i palazzi storici ristrutturati da Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona, che ha recentemente concesso in esposizione un arazzo di Raffaello in mostra fra Palazzo Abatellis, Castello Ursino di Catania e Palma di Montechiaro.

A macchia d’oro, lucente, prezioso. Dilagante in tutto il centro-sud Italia e in Sicilia, in gran parte sconosciuto ai più e con la voglia di essere scoperto per davvero. Il patrimonio d’arte e architettura che Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona accarezza e svela ogni volta e in qualunque luogo e modo sia possibile, è un enorme museo diffuso, ha in Sicilia e a Palermo in particolare uno dei pilastri fondanti e oggi, dopo aver collezionato, con lo splendido Palazzo Costantino, visite da record nell’ultima occasione di apertura al pubblico, si racconta per bocca del suo mecenate a I Love Sicilia. Una collezione che tra le gemme al bavero vive anche di un arazzo magnifico di 5 per 3,5 metri, raffigurante Anania e Safira: Raffaello, declinato alla siciliana, in un racconto che sorprende chi non lo ha mai ascoltato. “La presenza di Raffaello in Sicilia è decisiva dal punto di vista della produzione artistica e dell’impressione fortissima di stile. Allo Spasimo campeggiava una sua tavola originale, replicata nell’Isola in circa venti copie e trasportata nella penisola iberica durante la dominazione spagnola – spiega Bilotti..

La sua influenza ha investito tutto il Rinascimento siciliano. L’arazzo è stato esposto in occasione delle celebrazioni della Cappella Sistina ed è attualmente in mostra in Sicilia: è stato da settembre ai primi di febbraio a Palazzo Abatellis, da lì si è spostato al Castello Ursino di Catania e concluderà il tour espositivo a Palma di Montechiaro Raffaello: Millequattrocento, anzi Millecinque. Citiamo approssimativamente in maniera dissacrante ma non troppo Troisi-Benigni: lei da dove viene? Cosa ci porta? Sì, ma dove va? E qual è il rapporto con la Sicilia? “Sono campano di origine, sono nato a New York, ho studiato a Roma, ho vissuto in Calabria ma da vent’anni Palermo è il mio principale riferimento. Tutti i luoghi che ho citato sono divenuti scenari di importanti musei in collaborazione fra pubblico e privato”. Un mecenate, dunque: la definizione le sta stretta o larga? “Sulla scia delle iniziative familiari, tra passione e concretezza sono nati vari musei dove hanno trovato collocazione permanenti le raccolte della mia famiglia e mie personali, finalmente accessibili a tutti con spirito di condivisione. Nel 2006 abbiamo inaugurato il Museo ‘Carlo Bilotti’ all’Aranciera di Villa Borghese, l’antico Casino dei giochi d’acqua. Tra architetture seicentesche e statue romane colossali, sono esposti i ritratti familiari eseguiti da Andy Warhol, le tele metafisiche di de Chirico, quelle futuriste di Severini. La Collezione Bilotti, che presenta gli stessi artisti del Guggenheim, è caratterizzata da committenze dirette; alcuni cicli sono nati dalla visione imprenditoriale di coniugare arte e comunicazione, così Carlo Bilotti da presidente di Pierre Cardin aveva commissionato a Warhol quadri con i fiori Mimosa e ylang ylang, dalle cui essenze si ricavano i profumi femminili Pierre Cardin, concependo un nuovo linguaggio creativo per pubblicizzare i prodotti. Nel 1983 in Campidoglio, nella sala Orazi e Curiazi, abbiamo esposto la serie dei Warhol verso de Chirico. Altre commesse dirette a Lichtenstein: Twombly, Kiefer e Niki de Saint Phalle, tra le quali la bottiglia per la cosmesi con serpente a due teste e molte coloratissime sculture. Ancora Warhol con Double Elvis, la serie delle orchidee, delle scarpe e dei Camouflage lunghi ognuno più di 10 metri”. Piano, per favore. Non abbiamo finito? “No, affatto. Sono numerosi i Picasso, Chagall, Mirò, Calder, Clemente, Dalì, De Kooning, Dubuffet, Fontana, Kandinsky, Leger,Mirò, Rauschenberg, Tapies, che abbiamo esposto a rotazione dalle Scuderie del Quirinale nella mostra Artisti della materia 2006 , a Cosenza nel convento Sant’Agostino per Da Picasso a Warhol nel 2005 e le tele di Saville a Palermo alla Gam nel 2006. Nel 2004 abbiamo dato vita al MAB, il Museo all’Aperto a Cosenza, con un articolato itinerario tra le avanguardie, dal cubismo di Severini al futurismo di Balla, dalla metafisica di de Chirico al surrealismo di Dalì. Nel 2011 nasce il Museo ‘Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona’ nelcastello di Rende, le cui vicende storiche sono ricordate da Dante. Ho istituito il Museo della ceramica di Calabria a Rende. E ancora, Casa delle Culture, con le donazioni mie e di Irene Telesio. Basta così? “Abbiamo portato il futurista Umberto Boccioni nella Galleria nazionale della (sua) Calabria. Marinetti voleva vi fosse esposta la scultura più emblematica, Forme uniche nella continuità dello spazio, che è rappresentata sulla moneta da 20 centesimi. Dopo 78 anni sono riuscito a farlo, donando la scultura”. Bello, bellissimo. E Palermo? Un sogno realizzato?  “È proprio la dimensione del sogno a connotare il mio periodo palermitano. Palermo è un sogno bellissimo, un amore a prima vista, forse suggeritomi dalla lettura precoce de Il Gattopardo. Qui tutto mi ha attirato: storia arte architettura e bellezza, qui ho sentito forte l’identità spagnola e normanna dei miei avi. Quando venni a Palermo per la prima volta mi colpì subito che così tante dimore fossero chiuse e meraviglie come i palazzi Valdina e Geraci, sul Cassaro, ancora ridotti a macerie belliche. A distanza di 22 anni traccio il bilancio, che non è fatto di numeri e tabelle, ma di percorsi accidentati, attese, infiniti tentativi di sopravvivere a una burocrazia asfittica ed asfissiante”. Torniamo alle cose belle: Palermo e i palazzi rinati. “Sì. Palazzo Oneto di Sperlinga, l’antica dimora dei Siragusa Valdaura narrata anche da Sciascia. Passato ai genovesi Oneto, che lo ricoprirono di apparati barocchi, stucchi di Procopio Serpotta e affreschi di Gaspare Serenario. Ancora cantiere l’ho inserito nei percorsi di Manifesta con la colossale installazione di Massimo Bartolini Caudu e Fridu, una gabbia- prigione di luminarie spente tipiche delle feste siciliane, con un neon che ricalca un graffito dello Steri, sede dell’Inquisizione; Palazzo di Napoli ai Quattro canti, le cui facciate culminano con lo stemma aragonese. I quattro pali rossi in campo d’oro inquartati con l’aquila sveva, a seguito del matrimonio di Pietro d’Aragona il Grande, protagonista dei Vespri, e Costanza di Svevia, dai quali discendo. I simboli aragonesi e svevi divengono emblemi della Regione come i colori”. Ci descrive il progetto? “Il primo progetto ha riguardato l’accorpamento del Palazzo Di Napoli al confinante Costantino, dopo aver ricongiunto le pluriproprietà nelle quali era frazionato e riuscendo a restituire la distribuzione spaziale unitaria come concepita dal Marvuglia e la scenica fuga dei saloni. Ho rintracciato porte, sopraporte, camini pensati per il palazzo che erano finiti sul mercato antiquario fiorentino mentre il pavimento maiolicato barocco con la Nascita di Venere era stato venduto all’asta a Parigi nel marzo 1997 all’Hotel George V. Ma purtroppo…”. Cosa? “Il progetto di albergo-museo si è infranto sui tempi delle procedure amministrative. Ho cercato dunque di musealizzarlo offrendolo in concessione alla Regione. Con il fermento apportato da Manifesta 2018 si schiudeva una nuova opportunità, di portare il Maxxi a Palermo ai Quattro canti. Giovanna Melandri, presidente della  Fondazione, lo aveva inserito nel generale upgrade strategico del museo. Un’altra sfida ha riguardato Palazzo Burgio in via Garibaldi, l’antica Via di Porta di Termini, scenario della grande edificazione barocca. Fatiscente e diroccato, ma sopravvivevano l’eccentrica stanza della scimmia, l’imponente cavallerizza con il colonnato di Billiemi, lo scalone in marmo rosso e l’infilata dei saloni rococò, con stucchi a rocaille”. Altro? “Mi sono imbattuto nella sconsacrata Chiesa del Giglio e nella sua canonica, sulla scia del progetto di mio zio Carlo con Warhol, il cui modello del 1983 è esposto a Pittsburgh nel Warhol Museum. Un luogo d’arte e meditazione in senso laico, spirituale non legato a specifica religione, su modello della Rothko Chapel a Houston e Matisse in Provenza, così abbiamo commissionato a Jenny Saville che, trasferitasi in quegli anni a Palermo, ha realizzato a Palazzo Cutò il trittico The atonement studies. Le condizioni incontrollate del quartiere hanno fatto desistere dal collocare le opere”. I palazzi ma anche i quartieri circostanti, densi anch’essi di storia e, ahinoi, fatiscenza. “Per il Capo avevo coinvolto la Maire Engineering – Immobiliare Fiat per un grande progetto che avrebbe coinvolto tutto il quartiere. Si era ipotizzata, con la partecipazione pubblica, l’acquisizione di quanto era abbandonato da parte del Comune, finanziato dall’immobiliare che avrebbe creato le infrastrutture e restaurato i palazzi. Alla Vucciria avevo addirittura riunificato un isolato costituito da plurifrazionate unità di cinque palazzine semidistrutte: avevo pensato a un ostello tipo svedese. Ma intoppi di tutti i tipi hanno lasciato gli immobili nello stato potenziale”. Da dove arriva questo famelico impegno per il bello?  “Ciò che ho fatto mi è venuto spontaneo. A un gruppo di giovani artisti, ho dato in comodato gratuito un grande appartamento in via Sant’Agostino dove hanno potuto fare la loro residenza, Dimora OZ, un luogo dove esprimersi, creare ed esporre. Ho promosso diverse esposizioni, come le tele di Jenny Saville. Ho esposto e continuo a esporre l’arazzo di Raffaello a celebrazione del cinquecentenario della morte dell’artista. Ho fatto anche diverse donazioni ai musei siciliani”. Quali?  “Nel 2008 alla Gam ho donato due grandi sculture di de Chirico,  Archeologi e Ettore ed Andromeda, poste nella sala dello stenditoio,  e i bronzi di Igor Mitoraj Asclèpios, di Giacomo Manzù Penelope, di Salvador Dalì Omaggio a Newton, di Pablo Picasso Volto in  vetro in collaborazione con Costantini, di Archipengo Donna con fiori, e ancora sculture di Emilio Greco, Pericle Fazzini, Salvatore Fiume, Schifano. Ho donato anche la serie di cinque dipinti di fiori Rotella e un disegno di Damien Hirst a me dedicato, Death is irrelevant, ma anche un nucleo di maestri antichi come Pietro Novelli detto il Monrealese, Leto, Cercone…. Ai due palazzi della ex Provincia, rispettivamente a Palazzo Comitini ho donato i ritratti a olio settecenteschi dei Gravina mentre per lo scalone di Palazzo Sant’Elia le statue marmoree di Maddalena Pallavicino signora delle Egadi, arcipelago poi venduto ai Florio, una statua di Domenico Gagini e un’altra di Ugo, oltre a un arco di  Consagra. Alla Regione ho donato il rilievo parietale con ritratto di Carlo Di Napoli di Ignazio Marabitti, proveniente dall’atrio di palazzo delle Aquile ma restituito nel ‘700 alla famiglia, rimasto per secoli nel palazzo dei Quattro canti e oggi nel museo di Palazzo Ajutamicristo”.

Articolo di Salvatore Ferro per il Giornale I Love magazine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO.

Palazzo Bonaparte a Roma ospita la prima grande mostra di JAGO.

Sergio Ferroni

Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo che unisce talento a grande capacità di comunicazione. Amatissimo dal grande pubblico, mito per i giovani e fenomeno social, è l’emblema dell’artista contemporaneo che unisce talento a grande capacità di comunicazione. Arthemisia propone la sua prima mostra antologica, esponendo tutte le opere realizzate fino ad oggi. Palazzo Bonaparte a Roma ospita dal 12 marzo al 3 luglio 2022 la prima grande mostra dedicata a JAGO. Pseudonimo di Jacopo Cardillo, classe 1987, Jago è scultore potente attento agli esempi della nostra tradizione e universalmente noto come “The Social Artist” per le innate capacità comunicative e il grande successo che riscuote sui social. Sicuro talento nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione, Jago arriva direttamente al cuore del pubblico che lo ama, anzi lo adora. Paragonabile in tal senso a una rockstar, trasmette l’amore per l’arte ai giovani: le dirette streaming e le documentazioni foto e video – attraverso le quali coinvolge il suo pubblico sul web – raccontano il processo inventivo di ogni opera e il percorso condiviso consente una diretta partecipazione dei suoi followers al singolo passaggio esecutivo. Nelle sue opere, utilizza anche elementi tragici in un costante gioco di rimandi, con una visione sempre tesa alle tematiche del presente, suscitando provocatoriamente negli spettatori riflessioni sullo status dei nostri tempi.  A Palazzo Bonaparte la genialità di JAGO viene documentata per la prima volta in una mostra che riunisce una serie di opere realizzate fino ad oggi, dai sassi di fiume scolpiti (da Memoria di Sé a Excalibur), fino alle sculture monumentali di più recente realizzazione (come Figlio Velato e Pietà), passando per creazioni meno recenti ma più direttamente mediatiche quali il ritratto di Papa Benedetto XVI (Habemus Hominem).  Curata da Maria Teresa Benedetti, la mostra connota gli elementi chiave di un lavoro continuamente in fieri, capace di costante arricchimento. “ … La mia scultura è lingua viva. Utilizzare una lingua non significa copiarla. Mi riconosco in un linguaggio e lo adotto: sento l’esigenza di realizzare un collegamento con quello che vedo, senza spirito di emulazione. Sono me stesso.” Prima testimonianza è lo scavo sui grandi sassi raccolti nel greto di un fiume alle pendici delle Alpi Apuane, pazientemente scavati nel desiderio di raccontare una storia personale e umana. Pietà e violenza si intrecciano nello sguardo dell’artista. Sorprendente è la scardinante nudità del Pontefice emerito, mentre l’immagine di una Venere (2018), priva della giovanile venustà, sconcerta e induce a riflettere sul valore simbolico della bellezza. D’altro lato incalza un drammatico oggi con la presenza del Figlio Velato (2019), icona simbolica di tragedie senza tempo, cui si connette l’intensa meditazione sul dolore, racchiusa nella desolata monumentalità della Pietà (2021). Ancor prima, l’artista ha proposto un tema svincolato da ogni rapporto con la storia, nel replicare la sequenza del battito cardiaco in Apparato Circolatorio (2017). Palazzo Bonaparte si trasformerà inoltre in uno studio d’artista: durante i mesi di mostra Jago lavorerà alla sua prossima imponente scultura all’interno della sede espositiva. Saranno anche organizzate visite straordinarie alla mostra, guidate dallo stesso Jago. L’esposizione JAGO. The Exhibition è prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio.

La Mostra

Emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e rara abilità comunicativa, Jago afferma di sé: “mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido.”

Scultore e comunicatore, Jago incarna la complessa figura dell’artista che si affida solo a sé stesso senza mediazioni, assumendosi per intero il compito di dialogare con il mondo. Attraverso le sue opere fornisce al pubblico una lettura personale della storia, risignificandola e utilizzando un materiale nobile come il marmo, appartenente alla tradizione, e procedimenti esecutivi classici (dal disegno al modello, dal bozzetto d’argilla al calco in gesso), insieme all’adozione della figura umana come soggetto prevalente. Un codice e un linguaggio si esprimono nell’asperità di superfici ruvide, lontane dalla levigatezza, dalla lucentezza e dalla grazia di molte sculture del passato, ribadendo l’aspetto contemporaneo di un’inevitabile corrosione del tempo. Nella puntuale ricerca di stimoli sempre nuovi, emerge in Jago un preciso interesse per elementi apparentemente inanimati da valorizzare, tale è il caso del sasso, scarto del processo di cavatura del marmo gettato nel fiume, forma capace di sollecitare emozioni e sviluppi. È il caso dell’opera giovanile La pelle dentro dove la capacità dell’arto di penetrare in maniera veemente all’interno della materia è in grado di enucleare una forma che lo rappresenti. Il lavorio incessante dell’acqua sul sasso diviene metafora dell’intervento creativo e la mano è emblematicamente assunta a strumento principe di ogni possibile realizzazione. È la mano dello scultore, strumento fondamentale per ogni operazione creativa. In Memoria di sé l’immagine di un bambino rispecchia lo scorrere dell’esistenza di un adulto. È un inno alla vita nel modo di unificarne gli aspetti fondamentali attraverso la circolarità delle emozioni. Altrove, come in Excalibur, il sasso è assunto sfrontatamente a contenitore per la rappresentazione del kalašnikov, vistoso strumento della violenza in atto. Un rapporto tra l’aggressività e l’antico ideale cavalleresco citato nel titolo è segno di ironico contrappasso o ampliamento di contenuti ambiguamente presenti. Dagli elementi evidenti in natura Jago passa a entità più scopertamente fisiche e anatomiche. Si allude ad Apparato Circolatorio, rappresentazione iconica del battito cardiaco in ognuna delle sue fasi dedicata a un amico scomparso. Un cuore continua a battere al di là della vita, nel pensiero di chi è stato amato. Ecco un modo di connotare di significati un’operazione nata all’insegna dell’individuazione di meccanismi biologici.  La nudità del pontefice emerito in Habemus Hominem è sigillo di un gesto di radicale spoliazione. Il corpo di Papa Benedetto XVI risulta denudato, il volto sorride con inedita dolcezza, il busto emaciato fa emergere l’umanità creaturale di chi è tornato a essere uomo. Venere è bruscamente sottratta a significati tradizionali, privata di giovinezza e di ogni seduzione estetica, scelta allusiva a valori altri assertori di una diversa verità. Ciò non esclude che l’atteggiamento delle braccia si richiami ancora ad un’antica grazia. Simbolico indizio di sofferenze atemporali è la figura del Figlio Velato, proveniente dalla Cappella dei Bianchi nel napoletano rione Sanità. Il fanciullo che giace inerme su una lastra marmorea racconta di una sorte oscura e drammatica, lo scacco di tanti innocenti che affrontano un cammino ricco di insidie, senza riuscire a toccare un approdo. Allo stesso modo una forte carica evocativa si riscontra nella Pietà, icona simbolica dell’arte di Jago, accolta in Santa Maria in Montesanto a Roma da un pubblico di straordinarie dimensioni. Un uomo desolato sorregge il corpo inanimato di un adolescente, offrendo un’impressione di grandiosità scabra e solenne. Come brusca successione temporale, additiamo la presenza nell’esposizione di un piccolo feto scolpito in marmo (The First Baby), affidato alle cure dell’astronauta Luca Parmitano. Portato nello spazio nel 2019, tornato in Terra l’anno successivo, rappresenta un modo di dilatare la presenza umana verso confini sempre più ampi. Una mostra – per citare la curatrice Maria Teresa Benedetti – nella quale “Si può essere sedotti dai nuovi linguaggi ampiamente adottati nella pratica artistica contemporanea, avvertire l’innegabile appeal della digital life, ma si può anche intuire la necessità di non escludere la storia, custode di valori che arricchiscono il nostro presente, pure così dirompentemente diverso.”

L’Artista

JAGO è un artista italiano che opera nel campo di scultura, grafica e produzione video. Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi l’Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010).  Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella Capitale, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite alla New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. Ha ottenuto numerosi premi nazionali e internazionali quali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al Marmo Macc del 2017. All’età di 24 anni, su presentazione di Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. La scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di Habemus Hominem e divenendo uno dei suoi lavori più noti. L’avvenuta spoliazione del Papa emerito dai suoi paramenti è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, attirando un numero record di visitatori (più di 3.500 durante l’inaugurazione). A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, JAGO si trasferisce a New York. Qui inizia la realizzazione del Figlio Velato, esposto permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo Fuori le Mura a Napoli. L’opera è ispirata al settecentesco Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, collocato nel Museo Cappella San Severo sempre a Napoli. La ricerca artistica di Jago fonda le sue radici nelle tecniche tradizionali e instaura un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo di video e dei social network, per condividere il processo produttivo. Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency), JAGO è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. Intitolata The First Baby e raffigurante il feto di un neonato, è tornata sulla Terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli avendo eletto il suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi. Realizza all’inizio di novembre l’installazione Look Down allora temporaneamente collocata in Piazza del Plebiscito (ora nel deserto di Al Haniyah a Fujairah), mentre il 1 ottobre 2021 installa l’opera Pietà nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.

 

Jeff Koons a Firenze: l’impotenza creatrice. La mostra? Un’esposizione di oggetti di lusso

Jeff Koons a Firenze: l’impotenza creatrice. La mostra? Un’esposizione di oggetti di lusso

Si ha l’impressione che (gran) parte dell’arte attuale voglia affermarsi come paladina delle genti, vessillo coloratissimo che guida i popoli in nome di quella libertà individuale, lecita tanto all’artista quanto all’uomo qualunque. Un quadro già visto. La lenta uscita dalla crisi pandemica, la prima “globale”, ha esasperato l’urgenza di consenso da parte di un tipo di arte, la famigerata “contemporanea”, ancorata, nella sua stessa definizione, al consumo immediato, all’evento come paradigma dell’oggetto, quindi un’arte premurosa sia nel recuperare la presenza viva delle masse, senza le quali non potrebbe essere, sia (addirittura!) nel rivendicare un’aura, un valore cultuale. L’efficacia dell’immagine di Delacroix anche al giorno d’oggi, fa capire come la suddetta urgenza porti inevitabilmente ad appropriarsi di soluzioni codificate nel passato, senza più pudori anacronistici; l’arte post-pandemica è tornata eroica, trionfale, persino “democratica”.  Non è casuale l’insistente accostamento critico di Jeff Koons con Marcel Duchamp, approccio “più politico che estetico”, parafrasando Cesare Brandi. Proprio dalla mostra Jeff Koons – Shine in corso a Firenze presso Palazzo Strozzi, curata da Arturo Galansino e Joachim Pissarro, viene lo spunto di riflessione riguardo un artista e un sistema disattendente le prerogative propugnate verso la collettività, soprattutto sul piano etico e culturale. Verrebbe da protestare quanto molta (se non tutta) arte postmoderna traluca la questione morale espandendone la soluzione, coscientemente, alla pura fruizione superficiale, alla sola apparenza, proprio come gli sfavillanti oggetti ideati da Koons. Questa escamotage, tuttavia, non può avvenire arbitrariamente, l’etica, e dunque l’estetica, non si possono innescare o annullare a piacimento nella medesima ricerca formale: in sostanza, Jeff Koons cade in una contraddizione.

Jeffrey Koons nasce nel 1955 a York, piccola contea nello stato della Pennsylvania, nota alle cronache per pietosi episodi di matrice razziale (York Race Riots, 1969); il clima di tensione non pare sfiorare minimamente l’infanzia del piccolo Jeff, cresciuto in una famiglia agiata e incoraggiante le tendenze artistiche del primogenito, finanche coltivando una certa idea di eleganza e pregio, vista l’attività di arredatori di interni dei Koons. Frequenta buone scuole d’arte a Baltimora e Chicago, dove conosce Ed Paschke da cui Koons viene introdotto in una cultura più cruda e underground del panorama artistico americano.  Trasferitosi a New York nel 1976, grazie alle esperienze al MoMA, con ruolo amministrativo, e come broker a Wall Street, Jeff Koons acquista una consapevolezza imprenditoriale decisamente unica per un’artista, riuscendo da subito a trovare finanziamenti adeguati alle sue prime mostre, non certo frugali, anche se distanti dalle monumentali installazioni cui oggi si è abituati. Fin dagli aspirapolvere della serie The New e dai palloni da basket della serie Equilibrium (prima metà degli anni Ottanta), la riproposizione del ready-made duchampiano perde il suo carattere sovversivo per affrontare una stasi celebrativa, totalmente dispersiva nella fruizione e nel desiderio, poiché non si tratta più di oggetti accessibili, ma solo del loro spettro. Vuoti Simulacri. L’idea di democratizzazione attraverso il benessere ed il consumo, è il punto creativo di Koons, secondo cui “è lo spettatore che crea l’opera” (Duchamp), portando a coincidere la fruizione con il consumo. Si estetizza l’American Dream, di fatto eliminando l’etica, proponendo arte “a qualunque costo”. L’idea della “luccicanza”, invero un leit-motiv delle esposizioni di arte contemporanea di Palazzo Strozzi (da Michelangelo Pistoletto a Loris Cecchini, fino a Tomas Saraceno), è un richiamo anche al primo intervento di Koons in Firenze, quando nel 2015 la sua scultura di Pluto e Proserpina, posizionata in piazza della Signoria, colpì soprattutto per lo sfacciato brillare della cromatura dorata, in netto contrasto con i marmi circostanti. La posizione critica è stata altalenante, mediando toni da tifoseria su chi, tra il sarcastico e il veritiero, proponeva anche di lasciare la scultura per sempre, e chi proprio non la poteva soffrire. Proprio sull’ambiguità critica poggia la fortuna di Jeff Koons, perché la valutazione dei suoi artefatti è prettamente arbitraria e quasi mai si sofferma sul valore oggettuale e contestuale dei medesimi, ma spesso si avvalla, quantitativamente, sull’enumerare le vendite e i costi sostenuti. Un ragionamento hollywoodiano. Ben pochi ricordano le condanne per plagio (l’ultima della Corte d’appello francese battuta nella primavera 2021), lungi dall’inquadrare la personalità dell’artista, ma utili a ridimensionare il rapporto tra l’immagine di un’opera e l’opera stessa. Koons non è “creatore” di immagini, se ne appropria attingendone da una realtà che ne produce una quantità esorbitante, contribuendo ad un’iconoclastia attivata non dalla distruzione, bensì dall’esacerbazione. Tutto ciò non è illecito, ma semplicemente impuntuale con le intenzioni dell’artista e della mostra fiorentina: non c’è alcuna inclusione, non c’è nessuna trascendenza nella rifrazione dei giocattoloni in acciaio inox, nelle mastodontiche porcellane smaltate e nei vetri blu soffiati sparsi per il piano nobile di Palazzo Strozzi, perché tutto è dissipato, non lascia traccia. “E Koons non è neppure regressivo. È fiacco, lo vedi e lo dimentichi” (Baudrillard). Senza rigore cronologico, la mostra Shine ha uno sviluppo per lo più associativo, cercando in ciascuna stanza del palazzo un accostamento formale. Sul piano programmatico, non si può negare un gran dispendio di risorse e la capacità di accordare notevoli istituzioni del gotha artistico internazionale, con prestiti provenienti da musei, fondazioni e prestigiose collezioni. Tuttavia, radunare per ostentare somiglia più ad un’esposizioni di oggetti di lusso che una proposta culturale, senza dimenticare che la Fondazione Palazzo Strozzi si pregia di un 40% di finanziamenti pubblici e gode dell’ammissibilità all’Art Bonus direttamente dal Ministero dei Beni Culturali: i criteri ministeriali, dichiaratamente privilegianti gli stockholder, sono un ulteriore dimostrazione di come la retrospettiva dell’artista vivente più pagato al mondo (il 15 maggio 2019 il suo Rabbit, 1986, è stato battuto da Christie’s per la cifra record di 91,1 milioni di dollari) sia un elogio al potere, alla sua estetica opulenza. Evocare i (presunti) desideri delle masse o definire l’acciaio inox un materiale “proletario” è una boutade puramente fuorviante, mistificatrice, atta a privare le forme e gli oggetti di un’etica della visione, escludendo persino la fonte originale. Si prenda la recente serie di Koons nominata Gazing Ball: le sfere blu di vetro soffiato, riprendente, tra l’altro, un vezzo da ricchi possidenti che esponevano queste sfere riflettenti nei loro giardini, a puro scopo decorativo, nell’opera di Koons fungono da elementi distraenti posizionate di fronte a riproduzioni di noti dipinti moderni oppure giustapposte su copie di statue classiche. L’effetto provocato è un’ipnotica concentrazione percettiva verso il cristallo, e la completa perdita di ricezione artistica. Nonostante le manifestazioni di semplicità, emblematiche nel riconoscersi nella celebre frase di Popeye, “I yam what I yam” (gioco di parole traducibile “Io sono quello che sono”), Jeff Koons è molto più vicino allo shakespeariano Jago (“I am not what I am”), l’esatto contrario di quel che dichiara. Asserire che Baloon Dog, sia un “cavallo di Troia” suona come una camuffata dichiarazione.

 

Bassano Romano e il Cinema – Il Palazzo Odescalchi Giustiniani a Bassano Romano, è stato lo straordinario scenario di molti film storici tra i quali “La dolce vita”.

Bassano Romano e il Cinema – Il Palazzo Odescalchi Giustiniani a Bassano Romano, è stato lo straordinario scenario di molti film storici tra i quali “La dolce vita”.

Durante le riprese appariva nel suo splendore ricco di statuaria romana e arredi, e proprio per la sua importanza nel 2003 lo Stato italiano decideva di acquisirlo con una spesa pubblica di circa 6 miliardi di lire più altri 3 milioni e mezzo di euro per i primi restauri. Però prima di essere consegnati palazzo, villa e rocca sono stati spogliati di tutto dai proprietari Odescalchi e lo Stato ha acquisito un contenitore vuoto. L’interrogazione parlamentare dell’on Marzia Ferraioli di Forza Italia n. 639 del 16.02.2022 chiede chiarimenti al Ministro sulla contraddizione, da una parte la statuaria Giustiniani passata ai Torlonia nell’800 viene oggi celebrata in Campidoglio, Villa Caffarelli, con grande enfasi nelle sale dedicate 6, 7, 8, 9 mentre la porzione Giustiniani passata nell’800 agli Odescalchi è stata dispersa fatta a pezzi e commercializzata brutalmente. La genesi dei due nuclei è legata alla illustre personalità del Marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637), protettore di Caravaggio, alla sua attività collezionistica e vocazione al mecenatismo che contribuì alla teoria delle arti figurative alla base della grande cultura italiana barocca calpestata dagli Odescalchi e fatta letteralmente a pezzi. L’interrogazione chiede che il ministro spieghi come sia possibile che gli Odescalchi hanno sradicato tutte le statue romane e seicentesche per essere portate nelle residenze private dei castelli di Bracciano, Palo e Santa Marinella, mentre altre sono state vendute clandestinamente all’estero come l’importantissimo “Mitra tauroctono”, il “Gladiatore che uccide un leone” finito al Getty Museum mutilato del leone, testa e braccia per non essere individuato. Riconosciuto casualmente dallo studioso tedesco Rainer Vollkommer, è stato sequestrato nel 1999 e riportato in Italia. La testa ruggente del leone, appartenente allo stesso gruppo è stata staccata e venduta sul mercato antiquario riconosciuta in occasione della mostra “Archaeology&ME”, le statue più colossali sono state decapitate e le teste più commerciali vendute. Altre statue portate clandestinamente nel palazzo Odescalchi romano di Piazza Santi Apostoli e da qui vendute come molti dei capolavori pittorici finiti clandestinamente sui mercati internazionali nelle aste di New York, Londra con false provenienze per non essere individuati. Poco è stato recuperato come il celebre taccuino di disegni di Pietro da Cortona sequestrato dalla guardia di finanza a Fiumicino a seguito di un tentativo di esportazione clandestina. Il Taccuino era uno dei tanti appartenuto alla Regina Cristina di Svezia ed acquistato con tutta la sua straordinaria collezione nel ‘600 da Livio Odescalchi dispersa ed annientata dai discendenti.  L’occultamento delle raccolte Odescalchi, preclude la vigilanza sul territorio delle soprintendenze, continua ad essere il trampolino verso il traffico internazionale illecito di beni culturali senza lasciare alcuna traccia creando gravissime perdite al Paese e, nel caso del palazzo Odesaclchi di Bassano, vanificando la spesa pubblica a danni ai beni demaniali e all’ interesse pubblico a danno della cultura dell’Italia. Già in passato dal Castello Odescalchi di Santa Marinella importanti statue romane sono finite all’estero,tra le quali Dionisio e Pan, a Copenaghen; Meleagro, in marmo pario, a Cambridge, una statua attribuita a Skopas a Berlino, una testa di Athena Parthenos a Parigi. La famosa Athena Parthenos di Fidia del V sec. a.C. ed  Apollo furono salvate con il sequestro e poste al sicuro nel Museo Nazionale di Civitavecchia. La dispersione incontrollata e la dispersione delle collezioni Odescalchi crea un grave danno alla cultura capitolina e all’Italia.

 

L’acquisto di un’opera d’arte da Picasso a Klimt tra le più care

L’acquisto di un’opera d’arte da Picasso a Klimt tra le più care

I costi sono altissimi nel mercato dell’arte moderna
dei pezzi pregiati

di Rosario Sprovieri

Attualmente il mercato dell’arte punta al rialzo, ma con intelligenza, rispondendo ancora una volta a una formula essenziale, qualità e rarità proposte con la giusta stima. E se in sala o al telefono ci sono molti collezionisti decisi a giocare tutto per tutto pur di accaparrarsi l’opera, le stime possono essere bruciate in pochi minuti. È il caso del bronzo del Giacometti in grandezza naturale, L’homme qui marche I del 1961, di cui esistono solo sei esemplari al mondo, oltre a quattro prove d’artista, stimata soli 12-18 milioni di sterline e aggiudicata da Sotheby’s il 3 febbraio a 65 milioni, record mondiale per l’opera più cara venduta in un’asta. Proprietaria era la Commerzbank, mentre l’acquirente è un anonimo, probabilmente russo o del Medio o Estremo Oriente. Ma le aste di febbraio di Christie’s e Sotheby’s a Londra di impressionisti, arte moderna e contemporanea hanno risultati significativi per altre firme internazionali, compresa l’arte italiana del XX secolo.

Nella vendita serale di arte moderna di Christie’s del 2 febbraio (76,9 milioni di sterline di fatturato) il prezzo più alto (oltre 8,1 milioni di sterline, contro una stima di 3-4 milioni) è stato pagato da un anonimo inglese per Tête de femme del 1963 di Pablo Picasso, ovvero Jacqueline che divenne la più importante delle sue Muse e modelle. Oltre 6,4 milioni (contro una stima di 4-6 milioni) ha pagato un anonimo europeo per Espagnole del 1916 di Natalia Goncharova, record mondiale dell’artista all’asta. L’opera, custodita in una collezione svizzera dagli anni ‘80, è un significativo esempio della rara serie cubo-futurista ove emergono le due discipline, la pittura e il design teatrale, che rendono celebre questa artista. Nel giugno del 2008 la sua opera Les fleurs, realizzando 5,5 milioni di sterline, aveva stabilito il record mondiale per un’opera pittorica realizzata da una donna.

Nella vendita serale di impressionisti e di arte moderna da Sotheby’s il 3 febbraio (fatturato totale di circa 147 milioni di sterline), oltre al bronzo del Giacometti, l’altra attesissima gemma era rappresentata da uno dei più importanti paesaggi di Gustav Klimt mai apparsi prima sul mercato, Church in Cassone – Landscape with Cypresses del 1913. È l’unico esempio sopravvissuto delle sue opere raffiguranti il Lago di Garda e appartenuto all’epoca al grande magnate del ferro Viktor Zuckerkandl, aggiudicato per oltre 26,9 milioni di sterline, contro una stima di 12-18 milioni, record mondiale per un paesaggio dell’artista. Era andato perso durante il periodo nazista, riapparendo solo molti decenni dopo. Nell’opera, ove alla rarità si aggiunge l’eccezionale qualità artistica, Klimt costruisce il villaggio che si riflette nel lago attraverso un mosaico di colori accesi: l’appiattimento della superficie pittorica e l’uso di forme geometriche sovrapposte costituiscono la sua risposta al Cubismo che aveva sperimentato durante il suo viaggio a Parigi nel 1909.

Le aste di post war e arte contemporanea hanno preso il via il 10 febbraio con la vendita serale di Sotheby’s che ha fatturato 54,1 milioni. L’attesa era improntata all’ottimismo dopo i segnali positivi del novembre scorso quando un’iconica opera di Andy Warhol, 200 One Dollar Bills, aveva raggiunto da Sotheby’s a New York i 43,7 milioni di dollari. Il dato più importante è la grande partecipazione italiana interessata soprattutto alla collezione dei coniugi tedeschi Lenz formata in un periodo di 50 anni con opere dei maestri internazionali appartenenti al “Gruppo Zero”. Questo movimento europeo nato nel 1957, a cui avevano aderito gli italiani Lucio Fontana e Piero Manzoni, era caratterizzato da immagini monocromatiche ricche di spiritualità e dinamismo.

Di Lucio Fontana, un potente Concetto Spaziale New York 1962, tagli e graffiti su rame (198×98 cm) ha raddoppiato la stima realizzando 3.065.250 sterline. L’artista si era ispirato salendo in cima al Seagram Building di Manhattan, fatto di bronzo e vetro dorato, che a lui apparve «come se contenesse il sole». L’asta è stata un successo per gli artisti italiani, tra i dieci top lot quattro erano rappresentati da Fontana e uno da Piero Manzoni (un Achrome del 1958 venduto per 2.841.250 sterline). Record pure per Gianni Colombo con Strutturazione pulsante del 1960 (133 mila sterline, precedente record 43 mila), Piero Dorazio con Petit Poème de la délusion (241.250 sterline, precedente record 210 mila), Agostino Bonalumi con Bianco (223 mila sterline, precedente record 169 mila), Enrico Castellani con Untitled, Silver Surface (stima 70 / 90 mila, realizzo 493 mila, precedente record 490 mila).

Anche nell’asta dell’11 da Christie’s, con un fatturato di 39,1 milioni, l’autentica sorpresa arriva da un artista italiano, Alighiero Boetti, che con il suo Ononimo del 1973, penna biro su carta, monumentale opera in undici parti, raggiunge 1.049.250 sterline partendo da una stima di 250 / 350 mila. Un record mondiale per questo grande esponente dell’Arte Povera, ma un segnale che un vento a lui a favore lo sta consegnando a una platea internazionale di collezionisti, in vista anche dell’importante esposizione / vendita che aprirà i battenti a Parigi il 18 marzo presso la Galleria TornabuoniArte di Avenue Matignon e alle retrospettive che saranno a lui dedicate dal prossimo settembre dal Centre Pompidou di Parigi, dal Tate di Londra, dal Moma di New York. Allora si potrà dire Boetti come Fontana.