Made in Italy, il momento giusto di cambiare

Made in Italy, il momento giusto di cambiare

Renato Preti, managing partner del fondo Opera, spiega le mutazioni del mercato
e come i grandi marchi del lusso sono chiamati ad adeguarsi. “Oggi il brand non basta pi˘, la gente cerca in quello che compra soprattutto piacere e divertimento”.

di Giuseppe De Pietro

“Intorno al made in Italy ormai Ë cambiato tutto. E’ come essere entrati in un altro mondo. PoichÈ non ci sono, almeno per il grosso pubblico, segnali evidenti sembra che non sia cambiato niente. Ma non Ë vero”. Renato Preti, che da tempo sul made in Italy e sul lusso in generale ha idee piuttosto severe, ha titoli per occuparsi di questo argomento perchÈ Ë managing partner di Opera (un fondo di private equity che ha costituito nel 2000 insieme alla Bulgari) che si occupa proprio e specificatamente di aziende del settore Italian Lifestyle.PerchÈ dice che Ë cambiato tutto? “Intanto, circolano delle cifre piuttosto significative. Fatti i conti sui maggiori undici players mondiali del lusso noi abbiamo che il loro fatturato nel 1999 era cresciuto di quasi il 20 per cento, di quasi il 30 per cento l’anno dopo. Poi, nel 2001 la frenata. Le vendite crescono solo dell’8 per cento.

Nel 2002 la crisi: scendono dello 0,4 per cento. Nel 2003 si dice che risaliranno, ma la stima corrente Ë che la crescita sia solo del 2,3 per cento e nel 2004 si arriver‡, forse, al 5,7 per cento. Insomma, i trend di crescita del 20-30 per cento all’anno sono scomparsi. Non ci sono pi˘”.Altri cambiamenti? “Età e soldi” Cioè? “Fra i clienti crescono i giovani. Nel 1997 i giovani fino a 25 anni era il 36
per cento rispetto al totale della clientela, nel 2001 erano gi‡ il 47 per cento.

Il settore, cioè, si avvia a avere in maggioranza una clientela che è al di sotto dei 25 anni. E questo vuol dire moltissimo: altri stili di vita, altre richieste, altre abitudini, altre attenzioni”. E poi c’è il discorso dei soldi. “SÏ Nel 1997 le classi con alto reddito costituivano il 27 per cento dei clienti del lusso, oggi siamo gi‡ scesi al 25 per cento. Nel frattempo le classi “medie” (come reddito) sono passate dall’11 al 16 per cento e quelle a basso reddito dal 9 all’11 per cento. Anche qui, insomma, c’Ë un cambiamento. Di fatto nel mercato, come clienti, stanno entrando forza i giovani e le classi medie. Insieme, si tratta di un mix abbastanza esplosivo”.
Ma i cambiamenti non sono tutti qui, suppongo. “Infatti, ci sono altre cose che stanno cambiando. E, di nuovo, siamo a una svolta molto importante”. Di che cosa si tratta? “Sarebbe un discorso lunghissimo (c’Ë gente che vi ha scritto sopra interi libri e ci sono decine e decine di ricerche molto complesse).

Ma, semplificando, possiamo dire questo: negli anni 80 il made in Italy era soprattutto esibizione, ostentazione. La Milano da bere, via. Negli anni 90 si Ë trasformato in brand.Poichè sono uno che ha reddito, e che ha gusto, mi vesto Armani, Versace, Prada, ecc. Gli anni Novanta sono i grandi anni della marca, del brand, della griffe”. E adesso? “C’è una rivoluzione, e non so quanto sia stata compresa da tutti”. In che cosa consiste? “Sostanzialmente oggi la gente non compra più˘ cose belle per esibizionismo o perchÈ sono firmate da una griffe famosa. Compra per piacere e per divertimento. Per avere un’emozione. E questo complica tutto”. Qualche esempio? “Sono sotto gli occhi di tutti. Qualche giorno fa incontro una mia conoscente, ricchissima, che era tutta vestita di Zara, cioË di questa grande catena spagnola di roba poco costosa. Un fatto impensabile fino a qualche anno fa.

Ma adesso, no. Si può fare. Perchè? Perchè è divertente, perchÈ queste sono cose carine. D’altra parte, non si tratta solo della mia amica. Zara a Milano ha un buon successo e adesso Ë arrivata anche la catena svedese H&M. Insomma, la discriminante non Ë pi˘ la griffe importante, Ë che la roba proposta sia piacevole e divertente. I soldi, nonostante tutto, ci sono. Ma la gente ha fatto un salto e compra quello che vuole. Vuole un altro caso? Le motociclette. Quelle straniere saranno anche pi˘ solide, avranno delle loro indubbie qualit‡, ma le moto “belle” sono le italiane. Basta andare in qualunque salone e si vede subito. C’è dentro una cifra stilistica, una cura, che le grandi case straniere non riescono a eguagliare. E la gente compra le moto italiane: perchÈ sono belle, perchÈ sono emozionanti, addirittura perchÈ,m a volte, non riusciamo nemmeno a fare tutte quelle che il mercato richiede”. Tutto questo cambiamento che cosa comporta per il nostro made in Italy, per il nostro mondo del lusso? “Temo conseguenze pesanti. I nostri sono tutti marchi affermati, e quindi continueranno a vendere per anni e anni. Ma temo che, in un certo senso, abbiano un grande futuro alle spalle. Temo che non riescano pi˘ a essere i protagonisti di domani”.
E come mai? “Ma, forse, perchè per essere divertenti, innovativi, di rottura, bisogna essere giovani o essere arrivati al successo da poco. Le nostre grandi griffe, invece, ormai sono un po’ delle cattedrali, delle strutture con stili precisi, collaudati, che funzionano. Non me li vedo che assumono di colpo due o tre stilisti fuori linea ma molto creativi con il preciso scopo di fare cose che stupiscono, che divertono. Non voglio fare nomi, come Ë ovvio, ma non è difficile capire quello che intendo dire. Se uno continua a farmi lo stesso abito, perfetto, fatto benissimo, con grandi tessuti e grande taglio, ok.

Ma nell’armadio ne ho gi‡ tre. Sabato mattina, invece, voglio andare in centro e comprarmi qualcosa che non ho (e che forse nemmeno mi serve), ma che mi d‡ la sensazione di avere addosso una cosa nuova, piacevole, anche controcorrente”. Un bel problema. “In pi˘ aggiunga che l’attenzione della gente si sta un po’ spostando. Dai vestiti alla casa, ad esempio. Nel settore arredamento la spesa sta crescendo in
misura molto forte”. Ma, ripeto, tutto questo che cosa significa per il made in Italy? “Penso che i settori in crescita siano appunto l’arredamento, le motociclette, l’illuminazione (le lampade), ma anche i cibi e i vini (il vero cuore dell’Italian Style of life)”. E qui come siamo messi? “Abbiamo tutto. Abbiamo i prodotti pi˘ belli del mondo, in assoluto. Nessuno fa lampade come le nostre e nemmeno mobili. Delle motociclette ho gi‡ detto, e potrei andare avanti nell’elenco. Insomma, fuori dalla moda, dall’abbigliamento, siamo in realt‡ ancora i pi˘ bravi del mondo. Il nostro gusto, anche in tutto quello che non Ë abbigliamento, rimane straordinario e molto ricercato. Provi a andare al cinema. Se l’azione si svolge in qualche salotto “di livello” sarà impossibile non vedere sullo schermo almeno un paio di lampade italiane e
qualche divano dalle nostre aziende”.

Allora siamo a cavallo. “Non tanto, per la verità”. E perchè? “Ma perchè andiamo a sbattere contro la solita maledizione italiana. Abbiamo le cose più belle del mondo, ma poi le aziende sono piccole, spesso familiari,
spesso lontane dal marketing moderno. Tante volte, quando il fondatore si deve ritirare, non si riesce a organizzare una successione valida. E quindi, alla fine, queste imprese coprono solo una parte minuscola dell’immenso mercato che hanno di fronte. Che è un mercato mondiale. E per stare su un mercato mondiale ci vogliono strutture forti. Crete ditte straniere solo con le magliette e i cappellini fatturano pi˘ delle nostre aziende omologhe. Gli altri solo con i cappellini legati alla marca fanno pi˘ di quello che qui si riesce a fare con cappellini e prodotto. La differenza sta nel fatto che gli altri sanno occupare un mercato mondiale, noi molto meno”. Siamo senza speranze? “No. Il vento del lusso, nonostante tutti i cambiamenti che abbiamo visto, tira ancora dalla nostra parte. Solo che dobbiamo riuscire a alzare qualche buona
vela per correre pi˘ forte”.

 

Intervista l creatore di Cartier

Intervista l creatore di Cartier

Di Sergio Ferroni

Intervista all’inventore del lusso Ha adattato Cartier ai tempi moderni, ha anticipato la tendenza a legare il lusso all’arte e la sua mano si nota ancora nelle scelte strategiche del colosso Richemont

L’ufficio di Alain-Dominique Perrin presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi è uno spazio relativamente sobrio per un uomo che da mezzo secolo detta il lusso in tutto il mondo. Nella cornice spiccano i libri sulle mostre d’arte d’avanguardia che da 32 anni ospitano la fondazione da lui presieduta sin dal primo giorno. A 74 anni, Perrin conserva l’incrollabile vitalità che lo ha portato a guidare Cartier negli anni cruciali dal 1976 al 1998 e che lo mantiene come una delle voci principali di Richemont, il colosso che racchiude alcuni dei marchi di alta orologeria. importanza, come lo stesso Cartier, Vacheron Constantin, Jaeger-LeCoultre e A. Lange & Söhne. In questa intervista esclusiva a Tiempo de Reloj, rievoca alcuni dei passaggi più rilevanti della sua biografia e analizza il futuro del settore.

Sei nato nel 1942, lo stesso anno in cui morì Louis Cartier. Non è una reincarnazione?

È un segno. Ho iniziato con Cartier nel 1969, ma non ci sono sempre stato. Ho diretto Richemont dal 1999 al 2003 e sono andato in pensione mezza pensione. Ora con Johann Rupert definisco la strategia del gruppo. E per te tutto è iniziato quando vendevi accendini Cartier. Sì, l’ho fatto per sei mesi, è stato un successo e Robert Hocq [proprietario della società di accendini Silver Match] mi ha assunto. Sono stato suo subordinato per alcuni mesi. Poi mi ha nominato capo delle vendite e un anno dopo ero già direttore generale della [linea più leggera] Briquet Cartier. Successivamente abbiamo lavorato con due o tre persone sul concetto di Les Must de Cartier. Ho scritto il concetto […]. Hocq, che era più finanziario, acquistò la maggior parte di Cartier perché Briquet era solo una licenza. Nel 1971 abbiamo comprato Cartier Paris, nel 1974 sono andato a comprare Cartier London perché parlava inglese, e nel 1978 abbiamo comprato Cartier New York con l’aiuto della famiglia Rupert.

Perché creare Les Must de Cartier e non recuperare lo storico marchio?

L’azienda stava perdendo denaro e la redditività era necessaria per sviluppare l’attività. Negli anni ’70 i successi del lusso in Francia furono pochi. Solo l’accendino Dupont e poco altro. Yves-Saint Laurent non esisteva e il lusso era un affare da negozi, non grandi aziende. Hermès aveva un negozio a Parigi e un altro a Cannes. [Louis] Vuitton dormiva con un negozio in Avenue Marceau. Il concetto di Les Must de Cartier era molto forte e c’era un’opportunità nel mercato. Era un marchio con prodotti costosi e di lusso, con una distribuzione specializzata in gioiellerie e tabaccherie oltre la boutique Cartier in Rue de la Paix.

Stavano reinventando il lusso?

Sì. Il successo è stato enorme ed è arrivato rapidamente. Non c’era mercato e l’abbiamo creato in due o tre anni, ei benefici sono stati molto importanti. […] Ho rifatto il modello Santos nel 1978 ma l’orologio più importante è stato il Tank. Abbiamo sviluppato una collezione di otto o nove modelli in oro e abbiamo iniziato a venderli nelle gioiellerie di tutto il mondo. La politica del suo Paese lo ha riconosciuto: la Legion d’Onore, l’Ordine Nazionale al Merito… Sì, naturalmente. Questo perché ho creato molti posti di lavoro. Ora a Richemont lavorano 33mila persone nel mondo e in Francia abbiamo circa 10mila dipendenti. Quando ha creato la Fondazione Cartier, collegare l’arte contemporanea al lusso in un decennio come gli anni ’80 era fare politica in Francia. Per me era una cosa politica. Dovevamo trovare un’idea per far sì che Cartier fosse simile all’establishment. All’inizio degli anni ’80 era un’azienda di lusso e ai nuovi socialisti non interessava il lusso. Ricordo una discussione con [l’economista, scrittore e politico] Jacques Attali, nel 1978. Attali era un socialista e [François] Mitterrand non era ancora stato eletto [presidente della Francia]. I socialisti volevano nazionalizzare Cartier. Attali, che ha più o meno la mia età, è venuto a parlare con noi e gli abbiamo chiesto come pensava di fare la nazionalizzazione. Dopo 30 minuti gli abbiamo detto: “Monsieur Attali, quando si vuole annunciare una decisione politica del genere, bisogna fare una piccola ricerca. Cartier è un’azienda straniera dal 1934”. Il ragazzo è diventato bianco. Negli anni ’30 Louis Cartier ei suoi fratelli decisero di portare Cartier in Svizzera, quando Hitler era in Germania e c’erano difficoltà in Francia con il Fronte Popolare. Da allora è un’azienda svizzera. Lo hanno fatto per proteggere il marchio e alcune officine. E abbiamo aperto un negozio molto importante a Ginevra che oggi compie 80 anni.

Lo scultore César, Andy Warhol, Elton John … Le celebrità hanno avvicinato Cartier o Cartier alle celebrità come una strategia?

Siamo stati i primi a lanciare un orologio o un gioiello con le celebrità per amicizia. Elton John è un buon amico da 40 anni, Tina Turner lo stesso, e molti altri. C’era Richard Gere,

 

Domenico Dolce e Stefano Gabbana

Domenico Dolce e Stefano Gabbana

di Giuseppe De Pietro

at their home in milano, 2001

Domenico Dolce e Stefano Gabbana: “Scontriamo continuamente, amichevolmente, sulle nostre idee” Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono stati scelti come famiglia di lavoratori 35 anni fa. Insieme, tra alti e bassi, hanno costruito uno storico impero tessile basato sulle loro radici e tradizioni. Abbiamo parlato con loro e abbiamo ritratto la modella Marta Ortiz interpretando le icone della maison italiana per le strade di Madrid. Sembra ieri che io e Domenico abbiamo iniziato. I primi anni sono stati devastanti, in ufficio sette giorni su sette, non uno libero. Abbiamo condiviso un obiettivo e l’entusiasmo che da sempre mettiamo nel nostro lavoro e che ci ha portato qui”, racconta Stefano Gabbana (Milano, 1962) guardando indietro [perché, sì, c’è ancora spazio per qualche festa in questo 2020] i suoi 35 anni d’amore creativo con l’anima gemella Domenico Dolce (Palermo, 1958).

La metà migliore del suo lavoro, un rapporto professionale –come ce ne sono stati pochi nella moda– che rimane forte e più sano che mai, nonostante i tanti disaccordi che, come ogni coppia, hanno dovuto affrontare. La sua storia è nota a tutti: un giorno del 1981 Domenico riesce a rispondere alla chiamata di Stefano chiedendo un lavoro come assistente nello studio del designer Giorgio Correggiari. È entrato, ovviamente. E quattro anni dopo stavano mettendo in scena il loro primo spettacolo come Dolce & Gabbana con una Milano nel suo periodo di massimo splendore come sfondo, assetata di nuove idee. Domenico ha ereditato il gusto per la sartoria dalla sua famiglia e Stefano, che aveva studiato grafica, ha completato il suo mestiere. Un ripieno perfetto non esente da discussioni che, si dice, sono quelle che alla fine portano ai migliori progetti: “Ci piace discutere!”, scherza Stefano. “Ci confrontiamo continuamente, amichevolmente, sulle nostre idee. A me piacciono alcune cose, a lui piacciono altre”. Come nelle migliori famiglie, vai. E il suo non sarebbe stato inferiore. “Ma l’importante è trovare sempre un equilibrio, una soluzione che ci renda felici entrambi. Durante il confinamento abbiamo discusso molto. È normale avere opinioni diverse! Siamo due facce della stessa medaglia”, dice Domenico.

Cosa c’è di più allegro e spensierato delle luminarie in una sera d’estate? Parte da qui, dalle mille luci colorate di una festa italiana, la collezione ‘Light therapy’ di Dolce e Gabbana, che sfila a Milano dopo due edizioni digitali. Ed è una festa, per gli stilisti, tornare a proporre le loro creazioni su una passerella tutta scintillante proprio di luminarie, per dare “un messaggio di allegria e spensieratezza in uscita – raccontano – da questo lungo tormentone”. Ed è un invito a uscire, a divertirsi, anche la collezione per la prossima estate, dove le luci si traducono in ricami di cristalli coloratissimi, che formano ancora motivi di luminarie sugli smoking, i jeans, i blazer, i bomber, i pull e i pantaloni.
Quando stavano disegnando la collezione, un trionfo di broccati, gessati, pizzi, paillettes e pennellate di colore – raccontano gli stilisti – hanno pensato che il lavoro di oggi ricordava loro quello del 2000, quando in opposizione ad anni di minimalismo proposero “una collezione donna massimalista che ebbe un gran successo”.
E ora, per quei giovani nati dopo l’anno 2000, Dolce e Gabbana tornano a proporre “quel momento di ricchezza, apertura ed edonismo” che aveva David Beckham come pioniere e icona dell’edonismo maschile. Allora “si andava nei locali, si usciva, si viveva fuori” ed è l’invito che fanno ai giovani ora: “volevamo far uscire la gente dai social” raccontano, spiegando che “quel che rimarrà del covid è l’isolamento sociale, che porta alla depressione, perché non si ha il coraggio di affrontare la vita, con le sue emozioni”. Il messaggio è: aprirsi! e lo dicono chiaramente le camicie che lasciano vedere il busto “non da playboy, ma proprio con quell’idea lì: apriti, affronta la vita, divertiti”. 

In questo c’è anche il ritorno alla sensualità: “c’è molto testosterone – ammettono – ed è una cosa normale”. E se negli anni 2000, citati nelle T-shirt bianche con la scritta ‘2000 fashion moment’, l’idolo era David Beckham, ora i modelli sono i giocatori della nazionale di calcio azzurra: “belli, giovani e aitanti”. E soprattutto italiani, perché la collezione non è solo “un inno alla vita, all’aggregazione” ma anche all’Italia. Ed ecco le tute sportive tricolore, i completi canottiera e shorts in raso di seta sempre nei toni della bandiera, portati con tanto di corona. A indossare le nuove creazioni, 95 ragazzi, “l’80% italiani e multietnici, uno con la corona è di colore e – raccontano – è italianissimo, è una bella generazione”. Sono giovani che hanno la fluidità nel dna, “non hanno barriere come noi, hanno un modo diverso di essere sicuri di sé, noi abbiamo troppi preconcetti nel giudicare, loro non pensano invece a giustificarsi”. Se per i ragazzi mettersi lo smalto è assolutamente normale, la cronaca racconta che c’è ancora chi viene bullizzato e picchiato per questa scelta.
“Rimaniamo sbigottiti – commentano gli stilisti – che succedano ancora queste cose, l’intolleranza purtroppo è ovunque, noi facevamo queste cose già nel ’94 e all’epoca abbiamo ricevuto insulti e censure per una campagna con un ragazzo con lo smalto”. Ora quei ragazzi fluidi e senza preconcetti sono ovunque, ed è per loro questa collezione, con cui Dolce e Gabbana festeggiano il ritorno live perché “una sfilata digitale è come uno spaghetto congelato e la moda è emozione e condivisione, un modo per stare e – concludono – ricominciare insieme”.

Scarpe Louboutin 2022: non semplici calzature ma favolosi gioielli

Scarpe Louboutin 2022: non semplici calzature ma favolosi gioielli

di Roberto Luongo

Ecco le proposte di Christian Louboutin per la stagione che sta arrivando. Tra cascate di diamanti, particolari preziosi in oro e argento ed eleganti pizzi, la collezione Autunno/Inverno 2018-2019 mostra tutto l’estro creativo di Christian Louboutin.

A pochi mesi dalla risoluzione della causa intentata dalla Maison francese Christian Louboutin ai danni del brand Van Haren, la nuova collezione di scarpe Louboutin è già pronta a far innamorare ogni donna.

Immancabile la suola rossa, tratto distintivo del brand francese e simbolo internazionale di lusso ed eleganza, ma tra cascate di strass, oro, e pizzo il rinomato stilista Christian Louboutin ha dato ancora una volta prova del suo estro creativo e del suo gusto raffinato. Dagli stivali alle sneakers, dalle ballerine ai sandali, dai tronchetti ai classici decollete, la collezione Autunno/Inverno 2021-2022 ne ha per tutti i gusti!
Decollete: per chi ama brillare nelle occasioni speciali come eventi importanti, cerimonie e cene di gala. Cosa rende un look più sofisticato ed elegante di una scarpa gioiello? Louboutin però ha un’idea tutta sua, molto più glamour e chic dei soliti sandali gioiello che siamo abituate a vedere al piede di una donna.

Come la favolosa Degrastrass, una Pumps tacco 100mm, di vera pelle. Strass applicati minuziosamente a mano contornano la scarpa in pvc, mostrando la femminiltà del piede e le sue curve.