Si ha l’impressione che (gran) parte dell’arte attuale voglia affermarsi come paladina delle genti, vessillo coloratissimo che guida i popoli in nome di quella libertà individuale, lecita tanto all’artista quanto all’uomo qualunque. Un quadro già visto. La lenta uscita dalla crisi pandemica, la prima “globale”, ha esasperato l’urgenza di consenso da parte di un tipo di arte, la famigerata “contemporanea”, ancorata, nella sua stessa definizione, al consumo immediato, all’evento come paradigma dell’oggetto, quindi un’arte premurosa sia nel recuperare la presenza viva delle masse, senza le quali non potrebbe essere, sia (addirittura!) nel rivendicare un’aura, un valore cultuale. L’efficacia dell’immagine di Delacroix anche al giorno d’oggi, fa capire come la suddetta urgenza porti inevitabilmente ad appropriarsi di soluzioni codificate nel passato, senza più pudori anacronistici; l’arte post-pandemica è tornata eroica, trionfale, persino “democratica”. Non è casuale l’insistente accostamento critico di Jeff Koons con Marcel Duchamp, approccio “più politico che estetico”, parafrasando Cesare Brandi. Proprio dalla mostra Jeff Koons – Shine in corso a Firenze presso Palazzo Strozzi, curata da Arturo Galansino e Joachim Pissarro, viene lo spunto di riflessione riguardo un artista e un sistema disattendente le prerogative propugnate verso la collettività, soprattutto sul piano etico e culturale. Verrebbe da protestare quanto molta (se non tutta) arte postmoderna traluca la questione morale espandendone la soluzione, coscientemente, alla pura fruizione superficiale, alla sola apparenza, proprio come gli sfavillanti oggetti ideati da Koons. Questa escamotage, tuttavia, non può avvenire arbitrariamente, l’etica, e dunque l’estetica, non si possono innescare o annullare a piacimento nella medesima ricerca formale: in sostanza, Jeff Koons cade in una contraddizione.
Jeffrey Koons nasce nel 1955 a York, piccola contea nello stato della Pennsylvania, nota alle cronache per pietosi episodi di matrice razziale (York Race Riots, 1969); il clima di tensione non pare sfiorare minimamente l’infanzia del piccolo Jeff, cresciuto in una famiglia agiata e incoraggiante le tendenze artistiche del primogenito, finanche coltivando una certa idea di eleganza e pregio, vista l’attività di arredatori di interni dei Koons. Frequenta buone scuole d’arte a Baltimora e Chicago, dove conosce Ed Paschke da cui Koons viene introdotto in una cultura più cruda e underground del panorama artistico americano. Trasferitosi a New York nel 1976, grazie alle esperienze al MoMA, con ruolo amministrativo, e come broker a Wall Street, Jeff Koons acquista una consapevolezza imprenditoriale decisamente unica per un’artista, riuscendo da subito a trovare finanziamenti adeguati alle sue prime mostre, non certo frugali, anche se distanti dalle monumentali installazioni cui oggi si è abituati. Fin dagli aspirapolvere della serie The New e dai palloni da basket della serie Equilibrium (prima metà degli anni Ottanta), la riproposizione del ready-made duchampiano perde il suo carattere sovversivo per affrontare una stasi celebrativa, totalmente dispersiva nella fruizione e nel desiderio, poiché non si tratta più di oggetti accessibili, ma solo del loro spettro. Vuoti Simulacri. L’idea di democratizzazione attraverso il benessere ed il consumo, è il punto creativo di Koons, secondo cui “è lo spettatore che crea l’opera” (Duchamp), portando a coincidere la fruizione con il consumo. Si estetizza l’American Dream, di fatto eliminando l’etica, proponendo arte “a qualunque costo”. L’idea della “luccicanza”, invero un leit-motiv delle esposizioni di arte contemporanea di Palazzo Strozzi (da Michelangelo Pistoletto a Loris Cecchini, fino a Tomas Saraceno), è un richiamo anche al primo intervento di Koons in Firenze, quando nel 2015 la sua scultura di Pluto e Proserpina, posizionata in piazza della Signoria, colpì soprattutto per lo sfacciato brillare della cromatura dorata, in netto contrasto con i marmi circostanti. La posizione critica è stata altalenante, mediando toni da tifoseria su chi, tra il sarcastico e il veritiero, proponeva anche di lasciare la scultura per sempre, e chi proprio non la poteva soffrire. Proprio sull’ambiguità critica poggia la fortuna di Jeff Koons, perché la valutazione dei suoi artefatti è prettamente arbitraria e quasi mai si sofferma sul valore oggettuale e contestuale dei medesimi, ma spesso si avvalla, quantitativamente, sull’enumerare le vendite e i costi sostenuti. Un ragionamento hollywoodiano. Ben pochi ricordano le condanne per plagio (l’ultima della Corte d’appello francese battuta nella primavera 2021), lungi dall’inquadrare la personalità dell’artista, ma utili a ridimensionare il rapporto tra l’immagine di un’opera e l’opera stessa. Koons non è “creatore” di immagini, se ne appropria attingendone da una realtà che ne produce una quantità esorbitante, contribuendo ad un’iconoclastia attivata non dalla distruzione, bensì dall’esacerbazione. Tutto ciò non è illecito, ma semplicemente impuntuale con le intenzioni dell’artista e della mostra fiorentina: non c’è alcuna inclusione, non c’è nessuna trascendenza nella rifrazione dei giocattoloni in acciaio inox, nelle mastodontiche porcellane smaltate e nei vetri blu soffiati sparsi per il piano nobile di Palazzo Strozzi, perché tutto è dissipato, non lascia traccia. “E Koons non è neppure regressivo. È fiacco, lo vedi e lo dimentichi” (Baudrillard). Senza rigore cronologico, la mostra Shine ha uno sviluppo per lo più associativo, cercando in ciascuna stanza del palazzo un accostamento formale. Sul piano programmatico, non si può negare un gran dispendio di risorse e la capacità di accordare notevoli istituzioni del gotha artistico internazionale, con prestiti provenienti da musei, fondazioni e prestigiose collezioni. Tuttavia, radunare per ostentare somiglia più ad un’esposizioni di oggetti di lusso che una proposta culturale, senza dimenticare che la Fondazione Palazzo Strozzi si pregia di un 40% di finanziamenti pubblici e gode dell’ammissibilità all’Art Bonus direttamente dal Ministero dei Beni Culturali: i criteri ministeriali, dichiaratamente privilegianti gli stockholder, sono un ulteriore dimostrazione di come la retrospettiva dell’artista vivente più pagato al mondo (il 15 maggio 2019 il suo Rabbit, 1986, è stato battuto da Christie’s per la cifra record di 91,1 milioni di dollari) sia un elogio al potere, alla sua estetica opulenza. Evocare i (presunti) desideri delle masse o definire l’acciaio inox un materiale “proletario” è una boutade puramente fuorviante, mistificatrice, atta a privare le forme e gli oggetti di un’etica della visione, escludendo persino la fonte originale. Si prenda la recente serie di Koons nominata Gazing Ball: le sfere blu di vetro soffiato, riprendente, tra l’altro, un vezzo da ricchi possidenti che esponevano queste sfere riflettenti nei loro giardini, a puro scopo decorativo, nell’opera di Koons fungono da elementi distraenti posizionate di fronte a riproduzioni di noti dipinti moderni oppure giustapposte su copie di statue classiche. L’effetto provocato è un’ipnotica concentrazione percettiva verso il cristallo, e la completa perdita di ricezione artistica. Nonostante le manifestazioni di semplicità, emblematiche nel riconoscersi nella celebre frase di Popeye, “I yam what I yam” (gioco di parole traducibile “Io sono quello che sono”), Jeff Koons è molto più vicino allo shakespeariano Jago (“I am not what I am”), l’esatto contrario di quel che dichiara. Asserire che Baloon Dog, sia un “cavallo di Troia” suona come una camuffata dichiarazione.